Cambiare con il clima attraverso la permacultura

da | Gen 5, 2024 | agricoltura, ambiente | 0 commenti

I ragazzi nelle piazze ci gridano di svegliarci, perché il tempo stringe. Ma il cambiamento climatico è solo una manifestazione di una più ampia crisi ecologico-economico-sociale, che ha aspetti diversi eppure strettamente interconnessi. E che nasce da una disconnessione: quella con la natura e con gli altri esseri umani.

Mentre il futuro appare sempre più incerto, tra pandemie, recessioni economiche, eventi climatici estremi e rischi di guerra nucleare mondiale, sempre più certa risulta la nostra incapacità di affrontarlo: la nostra scarsa resilienza sia come singoli individui che come intera società.

Molti si domandano se esista un’alternativa alla gabbia del Produci-consuma-crepa e sognano di scappare in qualche angolo isolato, dove diventare autosufficienti.

Autosufficienza, tuttavia, non significa resilienza.

Tra natura e città

Come ci sentiamo quando camminiamo in un bosco?

E quando siamo in coda in autostrada?

I benefici del contatto con la natura sono ormai ampiamente riconosciuti, ma che succede se per ottenerli dobbiamo passare ore in auto, prima e dopo l’immersione? Quanto è sostenibile tutto ciò?

Forse, allora, dovremmo fuggire dalla città e trasferirci in mezzo alla natura. Ma poi, per andare al lavoro, per comprare ciò che ci serve, per vedere gente e fare una vita normale, ci ritroveremmo comunque a guidare, o a prendere dei mezzi di trasporto, ogni giorno.

Come uscire da questo circolo vizioso?

Siamo natura

Sempre più messaggi pubblicitari propongono prodotti che “fanno bene a te, fanno bene all’ambiente”. Ma chi sarà mai questo signor ambiente, a cui dovremmo fare del bene con i nostri acquisti? L’ambiente, il Pianeta, la natura vengono presentati come oggetti esterni, separati da noi, che dovremmo benevolmente salvaguardare.

Il senso di disconnessione dal mondo naturale pervade la nostra cultura e affonda le radici indietro nel tempo: non qualche decina d’anni, ma millenni. Dal taglio dell’ultimo albero sull’isola di Pasqua alla conquista del Far West, la storia di buona parte dell’umanità è fatta di sovra-sfruttamento delle risorse. È permeata dal medesimo paradigma estrattivista che – attraverso lo sviluppo tecnologico e il proporzionale aumento della capacità distruttiva – ci ha portato all’Antropocene [1]. Un paradigma estrattivista che si materializza nelle nostre case, nelle nostre auto, nei nostri smartphone. Che ci ha trascinato non solo al surriscaldamento climatico, non solo al picco del petrolio (il massimo livello di estrazione possibile, prima dell’inevitabile declino), ma al picco di quasi ogni risorsa e materiale, cioè al peak everything.

Noi umani, però, non siamo extraterrestri su una navicella spaziale. Noi siamo l’ambiente, il Pianeta, la natura! Ne facciamo parte, siamo elementi del sistema e dobbiamo accettare i limiti di questa appartenenza.

Che ci piaccia o no, non possiamo sottrarci alle leggi che regolano la vita sulla Terra: non possiamo vivere in eterno, ad esempio, o emigrare su un altro pianeta perché abbiamo reso il nostro invivibile, o continuare a credere nel dogma della crescita infinita. Con buona pace dei super-miliardari che finanziano le ricerche sull’immortalità e sulla colonizzazione spaziale, o dei politici ed economisti ossessionati dal PIL.

Noi e gli altri

Oltre a quella dalla natura, c’è una seconda separazione introiettata nell’immaginario collettivo: quella dalle altre persone.

Le guerre, i genocidi, la schiavitù che accompagnano l’umanità dalla notte dei tempi si basano sul considerare l’altro come un nemico da odiare, un alieno da punire per la sua diversità, un essere inferiore che non merita alcuna pietà. Ma senza arrivare a tanto, come percepiamo gli altri nella nostra società individualista?

Gli altri sono quelli che ci soffiano l’ultimo posto nel parcheggio; sono i cretini che guidano in modo spericolato e gli imbranati che vanno come lumache, rubandoci qualche secondo del nostro preziosissimo tempo. La loro semplice presenza pregiudica la tranquillità della nostra passeggiata nel bosco, del nostro viaggio in treno, della nostra esperienza turistica. E c’è sempre qualcuno pronto a fregarci, se non stiamo in guardia.

Il mondo è pieno di idioti, ma chissà perché cerchiamo l’ammirazione – o persino l’invidia – di persone pressoché sconosciute, quando rendiamo pubblici i fatti nostri sui social… Chissà perché ci sentiamo a disagio se indossiamo un vestito fuori moda e temiamo che gli altri – gli idioti – l’abbiano notato. Chissà perché aneliamo all’approvazione e all’accettazione da parte di chi, in fondo, disprezziamo.

Siamo uomini – e donne – che non devono chiedere mai. Ribadiamo orgogliosamente la nostra indipendenza, che si traduce in disperato isolamento. Mentre molte altre dipendenze ci assoggettano.

Tutti liberi

Quanto dipendiamo dal sistema? Dalla fornitura di energia elettrica, dalle nostre inseparabili protesi tecnologiche, dai servizi di distribuzione dell’acqua, del metano, dei carburanti e di raccolta dei rifiuti, dalla connessione a Internet, dal sistema sanitario e da quello bancario, dal navigatore satellitare, dalla Grande Distribuzione Organizzata…

La schiavitù più evidente è quella esercitata dal denaro: lo rincorriamo spasmodicamente come drogati in crisi d’astinenza, disposti a tutto pur di procurarsi la sostanza agognata. Ci serve per pagare le bollette (la nostra dipendenza dalle reti tecnologiche), per andare al supermercato (la nostra dipendenza dal sistema agroindustriale di produzione e distribuzione del cibo) e persino per occupare il tempo libero, poiché sembra che il divertimento gratuito non esista.

Vendiamo il nostro tempo, le nostre competenze, le nostre migliori energie a chi ci offre un lavoro, spesso senza capire quale sia la logica e l’utilità del complesso mega-apparato di cui siamo un minuscolo ingranaggio, a parte generare profitti per qualcuno.

Meno dipendenza, più resilienza

Rieccoci nel circolo vizioso: come ne usciamo? Riaffiora l’idea di fuggire in un luogo selvaggio alla ricerca dell’autosufficienza. Col rischio dell’auto(mobile)-dipendenza!

Per quanto invivibili e disumanizzanti, le città esercitano un fascino magnetico: possiamo odiarle o amarle, ma comunque – se le abitiamo – mollare tutto e cambiare vita non è uno scherzo.

Tuttavia, anche restando, possiamo iniziare ad affrancarci dal sistema, a riprenderci alcune delle tante deleghe che gli abbiamo affidato.

Come? Uscendo dalla condizione di separati in casa, cioè di individui illusoriamente indipendenti all’interno della casa comune che è l’intero pianeta Terra. Comprendendo che siamo cellule di un unico grande organismo. Connettendoci maggiormente col mondo naturale e con gli altri.

Possiamo reintrodurre gradualmente la natura in città (a cominciare dal nostro balcone) e creare reti locali di mutuo aiuto in contro-tendenza all’accentramento dei servizi.

Possiamo esplorare il sottile spartiacque soggettivo tra veri bisogni (limitati) e desideri (infiniti), per poi trovare modi di soddisfare molti dei primi senza ricorrere al denaro. Ridurre le spese mensili – attraverso modalità non monetarie di soddisfacimento dei bisogni – significa poter dedicare metà tempo al lavoro retribuito. È l’inizio del passaggio dal concetto di occupazione a quello di modo di vivere.

Se l’obiettivo di sottrarci alla tirannia del sistema sembra irraggiungibile, non lo è il dimezzamento delle nostre tante dipendenze e il raddoppio della resilienza personale e comunitaria. Si ridimensionerà, come conseguenza, anche il nostro impatto ambientale e il nostro contributo al cambiamento climatico.

Le lenti della permacultura

Per fare tutto ciò, possiamo indossare gli occhiali della permacultura. Possiamo riesaminare le nostre vite adottando la sua visione sistemica e la sua base etica, che comunque non sono sua esclusiva, ma la collegano ad altri approcci altrettanto validi, come ad esempio quello dell’antroposofia.

La permacultura mira a costruire una società sostenibile, resiliente, rigenerativa prendendo ispirazione dalla natura: ci invita a osservarla non come alieni, ma con la consapevolezza di esserne parte e di non potere ignorare i suoi principi, bensì di doverli integrare nella nostra cultura per renderla più duratura. Una cultura permanente, appunto.

La natura offre infiniti esempi di relazioni collaborative, accanto a quelle competitive, le sole che ci hanno insegnato a vedere e che sono alla base della nostra società. Siamo esseri interdipendenti: ce lo ricorda la terza etica della permacultura – equa condivisione delle risorse (o anche cura del futuro) – che racchiude i concetti di autolimitazione, sobrietà, solidarietà intergenerazionale.

Practivism

Tutto ciò può suonare molto teorico e astratto, ma è proprio partendo da un’ampia cornice concettuale e da una base etica che la permacultura arriva a trovare soluzioni molto concrete, applicabili nel luogo in cui viviamo. Ci insegna a diventare ogni giorno agenti del cambiamento, che operano in prima persona, perché ha un unico imperativo: Prenditi la responsabilità della tua vita e di quella dei tuoi figli, e fallo ora!

L’attivismo pratico (practivism) non impedisce di scendere in piazza, accanto agli studenti, per richiamare una politica sorda alla crisi climatica. Agire e protestare sono comportamenti complementari, non alternativi: entrambi necessari e urgenti.

Il clima cambia… anche noi!

Per provare a riprogettarci la vita in ottica permaculturale, c’è un sintetico manuale appena pubblicato. Il clima cambia… Anch’io! Permacultura personale, sociale, urbana per diventare più resilienti è un invito a cambiare prospettiva e ripensare completamente il nostro rapporto col cibo, l’acqua, l’energia, i soldi e la comunità. Per sentirci un po’ meno separati in casa e un po’ più interconnessi. Un po’ meno succubi di bisogni indotti, e forse anche meno vulnerabili di fronte alle minacce della crisi globale.


[1] Antropocene è il termine con cui gli scienziati indicano la nuova era geologica in corso, caratterizzata dalla capacità della specie umana di stravolgere le condizioni dell’ambiente in cui vive e persino l’intero pianeta.

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