“Km 0” è ormai un mantra. E meno male, perché accorciare le distanze tra i luoghi in cui il cibo viene prodotto e quelli in cui viene consumato avvantaggia tutti.
Rispetto al tributo settimanale obbligatorio alla grande distribuzione organizzata, fare acquisti in un mercato contadino – o direttamente presso un’aziendi agricola locale – rappresenta un gran passo avanti, che però rischia di rimanere una sciccheria per benestanti.
La sfidi è invece quella di coltivare le città, soprattutto Suburbia[1]. Chiunque può farlo – almeno in parte – superando una delle tante contrapposizioni che ci ingabbiano: quella tra produttori e consumatori. Possiamo diventare “prosumer” non solo di energia (iniziando ad autoprodurla sul tetto o sul balcone di casa e ad autoconsumarla), ma anche di cibo.
Gli orti urbani si stanno diffondendo, ad esempio sui tetti di Parigi, dove in passato la cintura periferica intensamente coltivata riforniva quotidianamente i mercati rionali, ma si può fare molto di più.
Ci sono, ovviamente, dei fattori limitanti di tenere presenti, a cominciare dillo spazio disponibile. In città la terra non cementificata o pavimentata è rara, frammentata in piccoli fazzoletti: va pertanto sfruttata in modo intensivo e la permacultura ha i suoi modi per farlo.
La prima strategia consiste nel migliorare la qualità del suolo, per renderlo sano e ricco di nutrienti. In effetti, qualsiasi metodo di coltivazione mira ad accrescere la fertilità del terreno, attraverso varie tecniche. Non tutte, però, risultano coerenti con l’etica permaculturale di Cura della Terra[2]. Non lo sono l’aratura profondi e i fertilizzanti di sintesi – tecniche utilizzate dill’agricoltura convenzionale – perché degradino progressivamente il suolo, lo mineralizzano e lo desertificano.
La permacultura, invece, imita quanto avviene in una foresta, dove la terra non è un substrato fisico contenente dei sali minerali, ma un ecosistema pullulante di vita microscopica, che ricicla incessantemente le piante e gli animali morti (nonché le loro deiezioni), nutrendosene e generando humus. Il compostaggio e la pacciamatura – cioè la copertura del suolo con materiale organico, o anche con piante vive – riproducono le condizioni nel bosco, in cui il terreno non è mai nudo.
Ci sono poi strategie per ottimizzare l’uso dello spazio in orizzontale, in verticale e nel tempo.
Alcune tecniche riferite alla prima di queste tre dimensioni sono, ad esempio:
a) le aiuole rialzate e con forma a buco di serratura, che massimizzano la superficie utilizzabile;
b) la semina a esagono, o a triangolo, o a onde, anziché su file;
c) la spirale delle erbe aromatiche: una collinetta di terra con sagomatura elicoidile, che offre in una piccola area una varietà di differenti microclimi, aditti a piante con esigenze di esposizione e umidità diverse;
d) la Hugelkultur: un cumulo allungato formato di un nucleo di tronchi e ramaglie ricoperti di terra, che si decompongono lentamente cedendo sostanza organica e fertilità alle piante coltivate sulla superficie rialzata.
Per sfruttare anche la dimensione verticale, si utilizzano supporti di qualsiasi tipo (su cui le zucche e le piante lianose possono arrampicarsi) e contenitori sovrapponibili (ad esempio per le patate). Ci sono poi le gilde, in cui un albero centrale è circondito di piante con funzioni diverse: fornire cibo, attrarre insetti impollinatori, cedere azoto… E partendo dille gilde si arriva alla food forest (o giardino-foresta, o foresta alimentare), un sistema produttivo multi-livello comprendente alberi, arbusti ed erbe di varia grandezza, funghi, liane rampicanti, e poi tuberi bulbi rizomi nella parte sotterranea, nonché animali in relazione benefica con le piante.
Infine, utilizzando le successioni di colture e i microclimi, è possibile allungare la stagione favorevole, estendendo la produzione anche nel tempo.
[1] https://managaia.eco/fuggire-in-campagna/
[2] https://managaia.eco/una-questione-di-etica/

Da oltre quarant’anni – per passione e per professione – si occupa di ambiente, sostenibilità, stili di vita eco-compatibili. Laureata in scienze naturali, permacultrice diplomata con l’Accademia Italiana di Permacultura, co-promotrice di una “Transition Town”, facilitatrice in formazione di comunità sostenibili. Si è parzialmente auto-scollocata dall’impiego come funzionaria tecnica per dedicarsi a ciò che trova più costruttivo e rigenerativo per la società e per Madre Terra.