Non so voi, ma l’idea che la Cop27 si svolga in Egitto a Sharm el-Sheikh, non mi rende molto ottimista. Sarà che la posta in gioco è sempre più alta, sarà che gli anni passano e i cambiamenti non sono all’altezza del compito che ci aspetta (nel 2021 le emissioni di Co2 hanno battuto ogni record), sarà che i lobbisti delle energie fossili sono più numerosi degli attivisti, sarà che uno degli sponsor principali è anche il principale produttore di rifiuti di plastica… la lista potrebbe continuare.
È ormai chiaro che i cambiamenti devono arrivare dal basso. Quel famoso 10% della popolazione di cui parla Olivier Turquet nel Dritti al punto che farà la differenza, perché la farà, – quella parte di me che rimane ottimista nonostante tutto lo sa –, come potrà esprimersi in un Paese che di fatto è una dittatura militare, che ha represso nel sangue i movimenti giovanili della Primavera araba del 2011, con il suo luogo simbolico in piazza Tahrir, che è responsabile dell’omicidio di Giulio Regeni, che lascia spegnersi nelle carceri ogni speranza di cambiamento? L’articolo di Naomi Klein pubblicato su “The Guardian” (e tradotto da “Internazionale”) spiega bene questi dubbi, raccontando la vicenda del prigioniero politico e attivista Alaa Abdel Fattah, in carcere al Cairo dove ha intrapreso uno sciopero della fame da più di 200 giorni e che ha deciso di iniziare quello della sete durante i giorni della conferenza sul clima.
Non sarà che le operazioni ormai note di greenwashing si stanno trasformando in bloodwashing? Perché la crisi climatica, aggravandosi, avrà un bilancio sempre più pesante in termini di vite umane (per non parlare del crollo della biodiversità, dell’attacco al vivente in tutte le sue forme). E il dramma è che proprio i luoghi che sono meno responsabili del danno, sono quelli a subirne le conseguenze più pesanti. L’Africa per esempio, di cui l’Egitto dovrebbe rappresentare gli interessi. Sul tavolo delle trattative quest’anno c’è per la prima volta il tema spinoso del risarcimento del danno da parte dei paesi ricchi e inquinanti.
Non è possibile affrontare seriamente la crisi climatica senza affrontare il tema della giustizia, della democrazia, della libertà di espressione, della parità di genere. Tutti argomenti per i quali si rischia il carcere in Egitto. Chi oserà parlare fuori dai bla bla bla istituzionali? Chi potrà dire la verità sull’ipocrisia dei Paesi occidentali, che comprano il gas all’Egitto? Trovo interessante da un punto di vista simbolico quello che sta accadendo: tutte le contraddizioni sono aggrovigliate in maniera eclatante in questa Cop27. Questo spiega in parte l’inazione dei governi in costante conflitto di interessi e accresce l’importanza dei movimenti dal basso che in ogni parte del Pianeta si stanno organizzando. E la conferenza mondiale che si terrà in questi giorni è certamente un’occasione per mobilitarsi e avere visibilità. Ma la battaglia climatica non è una vacanza al Club Med come invece sembra mostrare l’imbarazzante spot sul sito ufficiale del Paese che quest’anno ne ha la presidenza.
Scrittrice, vive tra Parigi e Roma.
Dopo aver seguito i lavori della COP21 nel 2015 a Parigi, ha deciso di coinvolgersi nel movimento ecologista e ha scritto il romanzo “Dopo la pioggia” pubblicato dalla casa editrice E/O che tratta di questi temi. Cerca di educare i suoi figli alla sobrietà felice e la parità di genere, ha piantato un orto in Piemonte con i principi della permacultura e aspetta con impazienza il ripristino del treno notturno Parigi Roma.