La scelta vegan riguarda (anche) l’alimentazione: chi la abbraccia elimina dalla sua vita, per quanto possibile (!), animali e derivati, cuoio e pelle, prodotti testati su altri esseri viventi e così via.
Ci teniamo a sottolineare il per quanto possibile. La stessa vegan society ci dà una definizione in questo senso: il veganismo è «una filosofia e un modo di vita che cerca di escludere – per quanto possibile e praticabile – tutte le forme di sfruttamento e di crudeltà nei confronti degli animali». Il mondo come lo conosciamo viaggia, per così dire, a una velocità e a una complessità incredibili – per il cittadino medio è difficile sottrarsi ai meccanismi del mercato e, con buona probabilità, la bevanda vegetale di soia o mandorla che acquistiamo è prodotta da quelle stesse realtà che commercializzano il latte vaccino.
Parliamo comunque di una filosofia: che ha sì a che vedere con l’alimentazione, ma che non si riduce certo al cibo che mettiamo sul piatto, o ai capi che indossiamo.
Perché è sbagliato parlare di dieta
Rimaniamo, comunque, sul tema alimentazione. La scelta vegana porta certo ad escludere alcuni grassi saturi come quelli della carne rossa, dei formaggi e delle uova: si potrebbe quindi pensare che la dieta vegan è – be’, una dieta vera e propria.
Chiudi gli occhi, pensa a un vegano: te lo immaginerai quasi sicuramente magro, magari con una sporta di tela al braccio piena di avocado, sedano e una busta (sfusa!) di quinoa. Nell’immaginario, le restrizioni imposte dalla scelta vegana, o antispecista, si sovrappongono a quelle di una più classica dieta: e tendiamo a credere che il corpo (del) vegano sia anche un corpo naturalmente magro. Più, o meno, sano.
In realtà, non è così! O meglio – se è una dieta, lo è solo nel senso etimologico. La parola viene infatti dal greco diaitia, ossia stile di vita. Nella medicina greca, una dieta indicava tutto un complesso di attività e scelte che rendevano un uomo quello che era: un filosofo, un uomo politico, un artigiano. Una parola molto più ampia che, forse, siamo stati noi a mettere a dieta e a restringere entro un ambito semantico scomodo.
Junk food, per favore
E quindi, d’accordo, il veganismo non è una dieta comunemente intesa. Né è necessariamente dietetico; chi sposa la scelta vegana vuole rinunciare, si è detto, a crudeltà e sofferenza. Non certo al gelato, alla pizza, al burger con gli amici. O alla pinta di birra – good news: l’alcol è tendenzialmente vegano.
In Italia il mercato si sta aggiornando con la tendenza già europea, e vediamo infatti aumentare il vegan junk food sugli scaffali: cioccolata ripiena, medaglioni che ricordano l’hamburger, cookies pieni di cioccolata, gelati variegati e così via.
Voglio eliminare, per quanto possibile, lo sfruttamento animale – ma, per favore, lasciatemi il panino con cui rifocillarmi dopo una serata fuori! Tutto questo per dire, sorpresa sorpresa, esistono anche vegani grassi. O non magri. La domanda è: e quindi?
Corpi e inclusività
Abbiamo parlato di eliminare ogni sfruttamento e sofferenza. Il veganismo, se vogliamo, è la politica più inclusiva che ci sia: rifiuta la discriminazione di ogni tipo, o anzi ogni specie, di corpo. Anche per questo è quanto più distante da quella che, in lingua inglese, si definisce fatphobia, o stigma dei corpi grassi.
Associamo (altro step errato, come quello che ci porta a considerare il vegan come restrizione) il corpo grasso a un corpo malato, quando spesso non è così. Né è indice di pigrizia e incuria – potremmo poi chiederci: e anche se lo fosse, sarebbe mai affar nostro? Viviamo in una società in cui, oltre il discorso della body positivity e dell’inclusività, vige ancora una forte paura del grasso. È tendenzialmente qualcosa da cui stare lontani (chi di noi non ha pensato di dover compensare la brioche presa a colazione con un allenamento intenso? La fetta di pizza con un’insalata il pasto successivo? E su), da evitare con cura e con la cura del corpo.
Dovremmo forse mettere uno stop a questo genere di credenze e atteggiamenti. Chi è vegan rifiuta di discriminare gli (altri) animali in base a diverse abilità, capacità cognitive e – sì – forma e struttura fisica o biologica. Un esercizio di decostruzione che non può che portare con sé la decostruzione dello stigma dei corpi grassi, altro pregiudizio dannoso.
Il mio corpo è un tempio? Anche meno
Da persona vegana, quindi, non vivo nel mantra dal sapore un po’ new age «il mio corpo è un tempio». Lo rispetto, certo, e gli dedico una giusta cura. Ma non rinuncio ai momenti di socialità che prevedano alcolici e cibo spazzatura – né al mio scoop di gelato mentre guardo una nuova serie a casa. Ho imparato, però, a rispettare i corpi: tutti, nella loro diversità.
Una scelta di vita – i greci, sì, la chiamerebbero dieta – che non richiede certo nessuna rinuncia.

Nata a Milano nel 1996, si laurea in Scienze Filosofiche e studia Teologia. Copywriter, SMM e traduttrice, è membro della rivista Liberazioni e del Gruppo Bucefalo. Porta avanti (con scarso successo) un orto (un po’ pirata), e si occupa di ambiente, antispecismo e animali in tutte le salse – vegan, s’intende.