Pink, Green e Rainbow washing: che cosa sono (e come evitarli)

da | Feb 9, 2024 | ambiente, greenwashing | 0 commenti

Vedere il mondo attraverso lenti rosa non è sempre una cosa positiva; non lo è specialmente quando parliamo di pinkwashing, operazione attraverso la quale aziende, compagnie e brand dichiarano il proprio impegno entro una causa sociale (quella femminista ed LGBTQ+ in questo caso: ma può essere la sostenibilità ambientale, l’eguaglianza razziale, il superamento dell’abilismo e così via) senza però concretamente fare molto. Se non, appunto, promuovere il proprio marchio e far discutere di sé.

Dietro le campagne pubblicitarie

Un brand che mostra, attraverso campagne pubblicitarie e manifesti, di sostenere l’eguaglianza di genere; una firma che si dichiara alleata della causa queer. O, ancora, una catena di supermercati impegnata a promuovere la propria linea green, più sostenibile e meno impattante.

Dietro a un’operazione di greenwashing, pinkwashing o rainbow washing non c’è però molto altro, oltre a eclatanti dichiarazioni e pubblicità pensate ad hoc.

Manca per esempio l’attenzione alla manodopera impiegata, che finisce per risultare parimenti impattante sulla popolazione marginalizzata delle zone più povere del mondo; manca la disponibilità alla ricerca di un packaging che sia realmente riciclabile, o che risulti a impatto zero; o vi sono attività commerciali che contraddicono le campagne stesse, operando in Paesi in cui l’espressione di genere è rigidamente governata dall’istituzione.

Il termine –washing nelle sue varie declinazioni deriva, ça va sans dire, dall’inglese: e ricalca il vocabolo whitewash, che indica l’operazione di imbiancare, di occultare, di abbellire o coprire qualcosa – non necessariamente con l’inganno, o con l’intenzione di nuocere.

Le stesse campagne di comunicazione dei grandi marchi non necessariamente possono macchiarsi di rosa o verde in maniera intenzionale: chiunque può riconoscere che contribuire alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla situazione di comunità marginalizzate, o sull’emergenza del disastro climatico, è anzitutto una buona cosa. La critica subentra nel momento in cui le campagne d’immagine sono appunto correlate ad attività di senso inverso – che remano contro, per così dire, alla campagna d’immagine stessa.

Vecchie e nuove strategie

Se vogliamo, sono strategie vecchie come il mondo – certamente precedenti al conio del vocabolo stesso, che nasce invece negli ultimi decenni. Pensiamo alla promozione delle grandi aziende petrolchimiche americane, come Chevron e DuPuont, che negli anni Novanta promuovevano un’immagine del tutto green della propria attività. O di Shell, che sempre in quegli anni si sponsorizzava sostenendo l’attività di ricerca della primatologa Jane Goodall nelle foreste vergini del Congo.

Lungo tutte le latitudini e un po’ a ogni altezza è facile ritrovare esempi di aziende che si dichiarano per esempio sensibili alle tematiche ambientali, che dichiarano il loro lavoro ecosostenibile – mossa che però non fa che distogliere dai processi effettivamente inquinanti che le aziende stesse non dismettono, e che anzi continuano a mettere in atto. Pensiamo alle case di moda, che spesso promuovono la propria capsule collection attraverso una grammatica della sostenibilità, del basso impatto e dei materiali biodegradabili – quelle stesse case di moda che ogni stagione rinnovano da zero la propria linea, in una ricerca della novità che non può che nuocere all’ambiente.

Così il Pride, manifestazione a supporto delle identità queer, ogni anno è assediato da sponsor che promuovono sé stessi prima che la causa LGBTQ+ stessa. E che rinunciano ad abbandonare i propri accordi commerciali con Paesi in cui le persone omosessuali, o con identità di genere non normata e non conforme, sono perseguitate o comunque osteggiate nella propria espressione di sé.

Infinite, sono, sembra, le strade del –washing: e riconoscerlo significa prestare attenzione alle dinamiche del mercato nella sua complessità, senza fermarsi a dichiarazioni stampa e colorati manifesti. Difficile, forse – non certo impossibile.

Tante sfumature di -washing

Quando nasce, però, il termine in sé? Secondo alcune genealogie, la voce greenwashing è la prima ad apparire ed ha origine negli anni Sessanta, quando l’industria alberghiera ideò uno degli esempi di greenwashing, appunto, più eclatanti. Si trattava di appendere nelle camere d’albergo degli avvisi in cui si chiedeva agli ospiti di riutilizzare i propri asciugamani, così da salvaguardare l’ambiente. Gli hotel beneficiavano però anzitutto di una riduzione dei costi di lavanderia, non era il tema della sostenibilità a muoverli – sotto ogni altro fronte, infatti, un vero impegno mancava.

Oggi, alcuni sociologi la definiscono semplice disinformazione; altri, più severi, la denunciano come strategia di mercato surrettizia. Per Ellis Jones, docente di Sociologia presso il College of the Holy Cross (Colorado), «è una palese forma di menzogna».

In Italia, il greenwashing è per esempio considerato pubblicità ingannevole, e viene monitorato come tale dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

La responsabilità delle aziende

Viviamo in un mondo che vuole mostrarsi inclusivo, attento alle istanze ambientali e sensibile all’opinione delle minoranze; e questo è, senza dubbio, un bene. L’opinione pubblica può influire sui brand, in questo senso, in due modi diversi – attraverso la richiesta d’un impegno, da un lato, e attraverso il monitoraggio di questo stesso impegno dall’altro. Se i brand si trovano quindi spinti a mostrarsi a favore di determinate cause, guadagnando clienti attraverso prodotti e comunicazione etici, l’impegno non può però limitarsi ad essere di facciata.

Il tema starebbe quindi alla singola azienda; e si tratterebbe di cercare di valutare, di caso in caso, se i propri valori, le azioni quotidiane e la presenza sul mercato siano di fatto compatibili e coerenti col messaggio da trasmettere. I Paesi cui si demanda la produzione hanno una parità di genere reale, o solo effettiva? Esiste un pay gap consistente, esistono pratiche discriminatorie diffuse? Il materiale che immetto sul mercato è davvero sostenibile o, anche se si tratta di fibre di recupero, avrò a che fare con una dispersione di microparticelle, o con un tessuto non più riutilizzabile – e quindi, ancora, impattante?

Le domande, insomma, sono molte. Ma l’impegno sociale è, del resto, impegno. E crediamo che anche le aziende se ne possano fare carico, senza ipocrisie.

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