Ho diciotto anni e sono siriana, ma al momento vivo in Turchia. Appartengo a quell’immensa folla di persone che fuggono dalle guerre, dalla miseria, dalle catastrofi ambientali, dalle persecuzioni etniche. Siamo almeno ottantaquattro milioni, nel mondo, secondo i dati 2022 dell’UNHCR[1].
Molti di noi – il 22% – vivono in campi di accoglienza organizzati, oppure anche improvvisati e autogestiti. In entrambi i casi, comunque, il sovraffollamento, la difficoltà di soddisfare i bisogni essenziali, le condizioni disumane rappresentano la normalità quotidiana.
Negli occhi di molte persone attorno a me non vedo speranza: solo paura, incertezza, sofferenza, disillusione. Sarei anch’io così, se non ci fosse stato il PDC[2].
È successo nel 2019. Da poco era nata la rete internazionale Permaculture for Refugees (P4R)[3], ispirata da Rosemarie Morrow, una docente, autrice e progettista australiana che moltissimo ha fatto per la diffusione della permacultura nel mondo.
L’idea di fondo era che la conoscenza della permacultura potesse rappresentare un’opportunità di riscatto per profughi, migranti forzati, richiedenti asilo, sfollati, apolidi. Per attuarla e verificarne l’efficacia, un gruppetto nell’ambito di P4R organizzò una serie di corsi PDC in campi per rifugiati di varie nazioni: Bangladesh, Turchia, Grecia, Filippine, Malaysia, Afghanistan e Iraq.
L’obiettivo – partendo dalla sensibilizzazione dei partecipanti su temi come la deforestazione, l’erosione dei suoli e la contaminazione dell’acqua – era insegnare tecniche per produrre cibo di buona qualità, creare legami comunitari, rendersi meno dipendenti dall’economia di mercato. Tuttavia – attraverso il passaparola e l’esempio – il progetto pilota ha avuto ricadute indirette ben più ampie: nei campi profughi, nelle comunità di re-insediamento e nelle organizzazioni locali. Perché noi studenti ci insegnavamo a vicenda, e poi contattavamo le nostre famiglie nei Paesi d’origine, o in altri campi, per trasmettere loro ciò che avevamo appreso.
Abbiamo imparato a trasformare i rifiuti in compost, a ridurre il consumo di acqua e riutilizzare le acque grigie per nutrire i vegetali, a mitigare il caldo e il freddo nelle tende, a impiantare orti comunitari per integrare la dieta scarsa e scadente del campo con alimenti ottenuti con le nostre mani. Abbiamo anche realizzato materiale informativo in diverse lingue, a seconda della nazionalità delle persone insediate.
È bello avere un lavoro utile, di cui si vedono i risultati, e che ci permette di aumentare il reddito o ridurre le spese.
Pure i lavoratori delle ONG sono stati ispirati dall’iniziativa e si sono fatti coinvolgere in ogni fase. E dopo il corso, hanno continuato a seguire i progetti che erano stati avviati all’interno del campo. Ne hanno parlato alle proprie organizzazioni, durante le loro le riunioni. E chi di loro è passato a un’altra ONG ha portato con sé le conoscenze acquisite, contribuendo a diffondere la permacultura anche altrove.
La vita ci riserva brutte sorprese, ma anche belle. La permacultura, per me, è stata una di queste.
[1] Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati
[2] Permaculture Design Certificate: il corso standard di 72 ore che introduce al mondo della permacultura.
[3] https://www.permacultureforrefugees.org/
crediti fotografici: Julie Ricard su Unsplash
Da oltre quarant’anni – per passione e per professione – si occupa di ambiente, sostenibilità, stili di vita eco-compatibili. Laureata in scienze naturali, permacultrice diplomata con l’Accademia Italiana di Permacultura, co-promotrice di una “Transition Town”, facilitatrice in formazione di comunità sostenibili. Si è parzialmente auto-scollocata dall’impiego come funzionaria tecnica per dedicarsi a ciò che trova più costruttivo e rigenerativo per la società e per Madre Terra.