Le conseguenze del fast fashion sono innumerevoli e per la maggior parte negative. Acquistando una maglietta a basso costo durante una passeggiata in città o al centro commerciale stiamo contribuendo a una serie di reazioni a catena dall’impatto davvero catastrofico. L’industria della moda ha un impatto ambientale e sociale enorme ed è nostro dovere essere consapevoli del significato simbolico e concreto che si nasconde dietro al semplice acquisto di una maglietta.
Questo articolo è dedicato alle conseguenze principali del fast fashion e ha lo speranzoso obiettivo di sensibilizzarvi per farvi acquistare meno, consapevoli di cosa questo significhi.
Che cos’è il fast fashion
Con fast fashion, letteralmente moda veloce, si identifica la rapida produzione di capi d’abbigliamento di costo medio basso. Moltissime catene d’abbigliamento presenti nelle vie delle nostre città o nei nostri centri commerciali sono esempi di fast fashion: possiamo visitarle anche ogni settimana e molto probabilmente troveremo sempre capi nuovi. L’aggiornamento costante e continuo di pantaloni, magliette e felpe dal costo relativamente contenuto, e talvolta estremamente basso, rappresentano la caratteristica principale del fast fashion.
Questo turnover continuo ha degli effetti enormi sul nostro Pianeta, principalmente dovuti al fatto che tutti questi capi a basso costo, e spesso di scarsa qualità, vengono prodotti in Paesi in via di sviluppo. Si parte quindi dallo sfruttamento del lavoro, dallo spreco di energie, dalla realizzazione di prodotti non riciclabili, passando per i danni causati dai trasporti attraverso le tratte marine sino ai problemi di smaltimento.
Insomma, l’industria del fast fashion propone un pacchetto completo di problematiche ambientali, vediamone alcune.
Le conseguenze sociali del fast fashion: lavoratori sfruttati e sottopagati
È tutto in quel pezzettino di tessuto bianco attaccato la maggior parte delle volte sotto il colletto nella parte interna della maglietta che stiamo comprando. Quel Made in Bangladesh, Made in Pakistan, Made in Thailandia, Turchia o India: i cinque Paesi più sfruttati dall’industria della moda. Quel Made in un Paese in via di sviluppo rappresenta un’incredibile barbarie umana e sociale.
Ci riferiamo a zone del mondo povere, in cui la manodopera costa meno e risulta quindi conveniente spostare la fase di produzione delle aziende di moda. Si tratta di una meccanica imprenditoriale anche comprensibile, il problema è che in questi Paesi i controlli per la dignità dei lavoratori sono pressoché inesistenti. Così il termine manodopera a basso costo diventa sinonimo di sfruttamento e assenza di diritti umani. Un’assenza dovuta al prezzo contenuto tutelato per il consumatore finale (occidentale).
La stragrande maggioranza dei capi presenti nei nostri amati negozi di moda arriva principalmente dalle stesse due aziende. In un’intervista a uno dei principali manager di una di queste aziende è stato chiesto quanto sarebbe stato necessario incrementare i prezzi per far sì che le condizioni di lavoro dei dipendenti migliorassero. La risposta è sconvolgente: pochi centesimi per capo.
Pochi centesimi per capo, per centinaia di migliaia di capi venduti a settimana farebbero la differenza. Quei pochi centesimi che magari non chiediamo o addirittura buttiamo quando una maglietta costa 9,95€ e non vogliamo il resto dei 10€ con cui stiamo pagando.
Le conseguenze ambientali del fast fashion
E se le motivazioni umane non sono sufficienti a sensibilizzarci sull’acquisto di questi indumenti, analizziamone alcune ambientali.
Poliestere
Il poliestere è uno dei principali protagonisti se parliamo di tessuti del fast fashion. Derivato del petrolio, utile alla produzione di abbigliamento che genera microplastiche in fase di lavaggio. Dannoso quindi per l’ambiente, ma anche per l’uomo, dato che si tratta di un materiale non traspirante, e, ciliegina sulla torta, non biodegradabile. Una volta smaltito il poliestere finisce in discarica, occupando spazio inutile e continuando a inquinare per anni.
Se la vita media dell’abbigliamento fast fashion è di poche settimane, l’impatto del poliestere è di decine di anni: a ogni pioggia verranno infatti riversate microplastiche nel terreno, inquinando l’acqua che passa attraverso esso.
Cotone
Anche il cotone fa la sua parte, seppur biodegradabile e naturale. Viene infatti prodotto per la maggior parte in Paesi in via di sviluppo, in cui anche i controlli dei processi industriali sono assolutamente discutibili.
Per la produzione di cotone si utilizzano enormi quantità di acqua e pesticidi: moltissime ricerche dimostrano come il fast fashion stia impattando negativamente sui bacini idrici dei Paesi in via di sviluppo.
Coloranti
Vestiti in poliestere e cotone vanno colorati, e anche questa fase rappresenta un reale dramma ambientale. I coloranti tessili sono la seconda causa mondiale di inquinamento di acque pulite. Sono un problema anche nei Paesi più tecnologici del mondo, che faticano a prevenirne l’impatto sul proprio bacino idrico, ma quando ci si sposta nei Paesi in via di sviluppo la situazione peggiora seriamente, vedendo i coloranti tessili riversati direttamente nei fiumi in prossimità delle aziende di produzione.
Siamo arrivati alla colorazione delle magliette, adesso arriva il problema di trasportarle nei nostri negozi.
Trasporto
Ad oggi, il modo migliore per far viaggiare merci in grandi quantità attraverso i continenti è il trasporto marino. Ci riferiamo quindi a quelle enormi imbarcazioni cariche di container che sovraffollano le vie marine.
Bisogna infatti parlare di sovraffollamento delle tratte marine, perché siamo arrivati a un punto in cui persino nei mari e negli oceani cominciano a esserci troppe navi. Tra le varie problematiche legate a questo sovraffollamento ci sono l’inquinamento dei mari, non solo per le sostanze in esso rilasciate, ma anche acustico. Molti animali marini, come le balene, basano il proprio orientamento sull’udito, attraverso un sistema simile a quello dei sonar. Il rumore dei numerosissimi e potenti motori navali disturba notevolmente la vita degli animali marini, e con ciò si intende che le balene si perdono, si deprimono e muoiono, tanto per citare una delle molte conseguenze da inquinamento marino.
Smaltimento
Assordate le balene, possiamo quindi comprare per una modica cifra la nostra maglietta nuova, indossarla qualche volta, renderci conto che non ne avevamo bisogno e riporla nel nostro armadio, sino alle prossime pulizie natalizie. Sino al momento in cui getteremo via quei capi, direttamente nella spazzatura o nei bidoni perché vengano riutilizzati, dal punto di vista ambientale poco cambia.
Abbiamo accennato al fatto che il poliestere non sia riciclabile, e così tutta questa fatica finisce nel creare discariche di magliette, felpe, maglioni, scarpe, giacche, cinture, guanti, cappelli e via dicendo, utilizzati pochissime volte.
Cosa fare
La moda del fast fashion deve finire, ed è solo il consumatore che può dare un segnale netto a chi produce e chi governa. Il fast fashion è solo una conseguenza dell’antica legge della domanda e dell’offerta. Se la smettiamo di comprare vestiti inutili la domanda un po’ alla volta diminuirà, e così la produzione.
Diminuiranno il numero di lavoratori sfruttati, le microplastiche nelle nostre acque, i coloranti tessili riversati nelle acque di zone del mondo in cui poi decidiamo di andare in vacanza perché paradisi naturali, diminuirà il brusio per le balene e diminuiranno le discariche.
Alessandro Chiarato, nato nella ridente città di Rovigo nel 1988, si occupa di comunicazione e marketing digitale con grande attenzione alle questioni legate all’utilizzo (o all’abuso) dei dati. Appassionato di tecnologia, guarda speranzoso alle innovazioni che arrivano da tutto il mondo in attesa di vedere una maggiore e reale attenzione verso le problematiche principali del nostro Pianeta e della nostra quotidianità, che riguardano quindi ciò che mangiamo, beviamo e respiriamo.