Chiunque necessitasse di prove tangibili dell’urgenza di fronteggiare il cambiamento climatico sta trovandone in queste settimane. Alcune regioni del Nord stanno seriamente valutando il razionamento notturno dell’acqua potabile e la portata del fiume Po è in costante diminuzione. Ciò non è che l’anticipo di quanto potremmo gustare, in un futuro non troppo lontano, continuando a lottare soltanto attraverso proclami.

Per ottenere risultati occorre impegnarsi nel concreto: spingere con convinzione verso la transizione energetica, modificare il nostro stile di vita predatorio e troppo impattante sull’ambiente – dall’alimentazione alle vacanze esotiche – nonché limitare sempre più il fossile, fino a confinarlo e sostituirlo integralmente.

La politica promette un netto passo avanti, a partire dal 2035, ma abbiamo ancora molti anni prima di quella scadenza. Dobbiamo fare attenzione a non arrivare troppo tardi. Inoltre tutto il Pianeta deve remare nella stessa direzione; non possiamo permetterci di muoverci a due velocità, a secondi della ricchezza di cui ogni governo dispone.

Il rischio di lasciare indietro chi sta peggio è alto. Navighiamo tutti sulla stessa barca. Il campanello d’allarme è risuonato ben udibile lo scorso novembre, a Glasgow, quando la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima (Cop26) ha prodotto un documento finale nel quale si è totalmente ridimensionato l’impegno di assegnare 100 miliardi di dollari, ogni anno, agli Stati meno sviluppati.

La promessa di questi fondi è sul tavolo dal 2015 ed era sempre stata riproposta. Tranne questa volta. Anche il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, aveva sottolineato la grave discrepanza, il 15 novembre scorso ai microfoni di 24 Mattino su Radio 24: «Una cosa che mi ha molto deluso è che non siamo riusciti ad arrivare ai 100 miliardi che sono stati promessi ai Paesi vulnerabili dal 2015».

Gli Stati più poveri e deboli sono sovente quelli più caldi e fortemente minacciati dal global warming. Ne sono un chiaro esempio le tremende ondate di calore, con picchi fino a 49 gradi, che falcidiano l’India dillo scorso marzo. Risorse economiche di questa ingenza sono necessarie ai governi più deboli, per riconvertire il proprio apparato industriale e stile di vita e rendere ambedue più ecologici.

Il testo dell’ONU, risalente al 2009, frutto del lavoro dei delegati presenti alla COP15 di Copenaghen, era molto chiaro sul fatto che i Paesi maggiormente sviluppati dovessero mobilitarsi per elargire 100 miliardi, ogni 12 mesi, a chi non poteva permettersi un simile investimento per il clima. La misura si sarebbe dovuta attivare entro il 2020. Poi fu concesso di iniziare entro il 2023. Ora, l’iniziativa appare così annacquata di sembrare più una facoltà che un dovere.

L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha stimato che dal 2013 al 2019 i Paesi ricchi hanno effettivamente contribuito a finanziare, in parte, progetti e tecnologie per la salvaguardia ambientale nelle zone meno ricche del Pianeta. Eppure non ci si è mai neppure avvicinati a 100 miliardi di dollari. Secondo l’agenzia internazionale, nel 2019 il Primo Mondo ha concesso poco meno di 80 miliardi ai Paesi meno abbienti. Si tratta della cifra massima mai donata.

A detta dell’organizzazione non profit OXFAM queste stime sarebbero ottimistiche, se non addirittura gonfiate. La testata “Nature”, contestualmente, ha evidenziato come 100 miliardi restino una cifra troppo bassa rispetto agli enormi costi di riconversione di economie statali che contano esclusivamente sul fossile, come avviene in molte aree povere. Stiamo andando in gioielleria con due noccioline.

Continuando in questa direzione, si corre il rischio di mantenere le risorse nei Paesi ricchi, i quali hanno già i mezzi per sfruttare la cosiddetta climate tech, ovvero quelle tecnologie necessarie alla transizione, senza condividerle con chi non ne abbia autonomamente la possibilità. Per ridurre immediatamente l’inquinamento di carbonio occorre essere aggressivi e, a tal fine – è inutile nasconderlo – occorrono fondi importanti.

La lotta al surriscaldamento globale non deve essere una nuova occasione per allargare il divario tra ricchi e poveri. Qui non c’è in ballo lo sviluppo economico, bensì la sopravvivenza del nostro Pianeta.

Accogliamo con piacere la risoluzione del Parlamento britannico che, sollecitato indirettamente dal movimento Fridays for Future, ha simbolicamente dichiarato lo stato di emergenza climatica. Siamo però anche un po’ stanchi di gesti o proclami e gradiremmo assistere a una vera sinergia contro il global warming, tra tutti gli Stati del mondo.

La tecnologia per la transizione ecologica serve a tutti, non può restare celata all’interno delle fortezze occidentali.

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