Crisi in Sudan: anatomia di una guerra ignorata

Il Sudan vive una guerra complessa che affonda in radici storiche profonde e si manifesta in fronti multipli, atrocità diffuse e istituzioni in collasso. Le ultime settimane confermano una spirale di violenze che rende ancora più critica la situazione umanitaria e politica del Paese.

Crisi in Sudan: anatomia di una guerra ignorata - immagine di copertina

    C’è una catastrofe umanitaria in Sudan di cui non si sente praticamente mai parlare, benché abbia raggiunto proporzioni che ridefiniscono l’intero Paese. Nel cuore di un conflitto che vede esercito e milizie RSF contendersi territori e potere, milioni di persone vivono tra assedi, carestie e violenze sistematiche, ma l’attenzione mediatica resta quasi inesistente. Le città si svuotano, le infrastrutture crollano e le linee del fronte mutano senza sosta, creando un mosaico di crisi sovrapposte difficile da ricostruire. La fragilità politica ereditata dagli anni di transizione si combina con alleanze militari mutevoli, generando una guerra che si espande di settimana in settimana. Gli appelli delle organizzazioni umanitarie non riescono a infrangere l’indifferenza globale, né a garantire accesso stabile agli aiuti. Ecco perché è fondamentale raccontare l’attuale crisi in Sudan: è un modo per sottrarre un conflitto invisibile all’ombra in cui continua a consumarsi.

    Le radici del conflitto

    La guerra esplosa nel 2023 affonda in una trama di fratture politiche, etniche e istituzionali che segnano il Sudan da decenni. Le tensioni tra Nord e Sud, le stagioni dei colpi di stato e la marginalizzazione di regioni come il Darfur hanno progressivamente eroso la tenuta del Paese, generando un sistema in cui le forze armate tradizionali coesistevano con milizie paramilitari cresciute in autonomia e potere. L’ascesa delle RSF, nate dalle milizie Janjaweed e consolidate nei vent’anni del regime di Omar al-Bashir, ha reso fragile la transizione avviata dopo la sua caduta nel 2019.

    Proprio la questione dello scioglimento delle RSF, previsto dagli accordi per il passaggio a un governo civile, ha trasformato la tensione latente in un conflitto aperto che oppone il generale Abdel Fattah al-Burhan e il suo esercito ai gruppi guidati da Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti. In questo scenario storico–politico complesso, la crisi attuale emerge come il punto di rottura di un equilibrio già logoro.

    La guerra del 2023: attori, dinamiche, territori

    Quando i primi combattimenti hanno raggiunto Khartoum, l’intero Paese è precipitato in una spirale bellica in cui esercito regolare e RSF hanno esteso le ostilità ben oltre la Capitale. Le Forze Armate Sudanesi hanno mantenuto il controllo di ampie zone del Nord e dell’Est, mentre le RSF hanno consolidato la loro presenza nel Darfur e nel Sud, intrecciando alleanze con movimenti ribelli come lo SPLM-N nel Kordofan. Bombardate con droni e artiglieria pesante e assediate, le città e molte aree rurali sono state travolte da avanzate improvvise e violente.

    Le accuse di crimini di guerra – esecuzioni sommarie, violenze su civili disarmati, blocchi sistematici degli aiuti – provengono da entrambe le parti, mentre i fronti attivi si moltiplicano. Il conflitto, ormai entrato nel terzo anno, presenta linee mobili e un mosaico di alleanze fluide che rende difficile qualsiasi negoziato strutturato.

    Conseguenze umanitarie e collasso del tessuto sociale

    Le cifre che emergono dalle organizzazioni internazionali delineano una tragedia di proporzioni estreme: oltre 150.000 morti e più di 14 milioni di sfollati, con comunità intere cancellate e territori divenuti inaccessibili. El Fasher, nel Darfur settentrionale, rappresenta una delle immagini più drammatiche, segnata da assedi prolungati, esecuzioni e distruzioni sistematiche. Le infrastrutture mediche risultano quasi assenti, la rete scolastica è crollata e vaste aree non ricevono assistenza da mesi.

    OIM, UNHCR, UNICEF e WFP descrivono un quadro in cui la mancanza di corridoi sicuri impedisce la distribuzione del cibo e dell’acqua potabile, mentre il Piano di risposta umanitaria 2025 resta finanziato solo al 25% (elemento che limita drasticamente la capacità di intervento sul campo). La crisi sociale si approfondisce giorno dopo giorno, intrecciandosi con carestie locali, epidemie e sfaldamento dei servizi essenziali.

    Le responsabilità politiche e la frammentazione del potere

    Il governo centrale, già indebolito dopo i colpi di stato del 2019 e del 2021, vive una fase di erosione continua, con l’autorità dello Stato che si frantuma man mano che nuove zone cadono sotto il controllo delle milizie. Le divisioni tra vertici militari, le rivalità personali e la pressione di attori esterni – come il sostegno degli Emirati Arabi Uniti alle RSF e quello dell’Egitto alle FAS – alimentano un quadro geopolitico in crisi, in cui il Sudan si ritrova teatro di interessi regionali e competizioni strategiche. I negoziati internazionali faticano a consolidarsi, spesso sabotati dall’assenza di condizioni minime condivise. In questo contesto, il Paese scivola verso uno scenario di conflitto prolungato, con istituzioni fragili, territori contesi e una popolazione sempre più esposta.

    Gli sviluppi più recenti

    La dichiarazione unilaterale di tregua delle RSF annunciata il 24 novembre non ha modificato le dinamiche sul terreno: già il giorno successivo, rapimenti e attacchi nel Kordofan hanno segnato una nuova escalation, mentre al-Burhan ha respinto il piano di pace definendolo inaccettabile. Nelle stesse ore, le violenze si sono intensificate sia nel Darfur sia nel Kordofan occidentale, con civili intrappolati tra bombardamenti e assedi. L’equilibrio instabile tra FAS, RSF e gruppi ribelli regionali lascia intuire un prolungamento della guerra, mentre le condizioni umanitarie raggiungono livelli di emergenza assoluta.

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