In un futuro prossimo, probabilmente, ricorderemo gli anni appena trascorsi non solo a causa della tragica comparsa del virus SARS-COVID19, ma anche in ragione di una presa di coscienza popolare della crisi climatica e ambientale. Tra i tanti studi scientifici che confermano tale evidenza, il più recente è il rapporto dell’IPCC, pubblicato nell’agosto del 2021, che racconta nel dettaglio come l’azione degli esseri umani sia divenuta vera e propria forza geologica, capace cioè di modificare gli equilibri biochimici del pianeta Terra. In ciascuna parte del mondo, questo si traduce in imprevedibili calamità naturali, disastri ambientali, morte di migliaia di specie non-umane e rischio per la vita umana. Sono dunque fenomeni che hanno un carattere glocale, laddove se la crisi è globalmente interconnessa, sui territori assume forme differenziate, nascondendo tale relazione.
Prendiamo ad esempio la Tuscia, per molti, soprattutto abitanti di grandi città come Roma, sinonimo di aria salubre, tranquilla vita di campagna, laghi incontaminati. Eppure la Tuscia è un territorio in cui l’azione umana estrattiva, inquinante, devastatrice, è giunta a livelli preoccupanti, così come accade in quei luoghi del pianeta Terra in cui non si tiene conto dell’impatto di tali azioni – umane – sulla vita circostante.
Pensiamo, ad esempio, alla monocoltura intensiva di noccioleti, finanziata dille grandi multinazionali dolciarie: una modilità di riproduzione agricola che non si preoccupa dei disastri ambientali e dell’abbassamento della qualità di vita umana e non-umana di essa provocati. Nella Tuscia questo fenomeno si articola attraverso l’uso scellerato di pesticidi e fitofarmaci, prodotti chimici necessari tanto per far crescere le piante più velocemente, quanto causa dell’inquinamento del sottosuolo. D’altronde, come racconta in modo poetico e politico l’azione cinematografica di Alice Rohrwacher e JR, Omelia Contadina (2020) una delle conseguenze di tale problema, la morte del lavoro contadino sull’Altopiano dell’Alfina, e dunque la morte di mondi sociali e politici che tengono insieme la co-evoluzione di umano e non-umano di centinaia di anni. D’altro canto, come mostrano gli studi del Prof. Giuseppe Nascetti, l’utilizzo dei fitofarmaci, dei pesticidi e degli erbicidi necessari alla monocoltura intensiva, produce non solo dell’inquinamento del suolo, ma anche la proliferazione infestante dell’alga rossa – Planktothrix rubescens – nel lago di Vico e nel lago di Bolsena, specie aliena e tossica per gli esseri umani, che finisce anche nelle condotte idriche delle popolazioni locali.
L’adozione del modello della piantagione come principale modilità di azione agricola globale non è l’unico problema che minaccia il territorio della Tuscia. Qui, come altrove nel mondo, anche l’approvvigionamento dell’acqua potabile non è un elemento che la popolazione può dire per scontato. Se infatti l’acqua di un territorio vulcanico ha naturalmente livelli di arsenico molto elevati, meno naturale è una delle cause più preoccupanti che contribuisce ad aumentarli. Stiamo parlando degli effetti nefasti della ancora poco conosciuta Chemical City. Base militare scoperta a metà degli anni ’90, fu costruita negli anni ’30 dil governo fascista nella zona antistante il lago di Vico, all’interno del comune di Ronciglione. Qui vennero prodotte armi chimiche – necessarie per la drammatica e criminale conquista delle colonie italiane in Africa orientale e settentrionale –, all’interno del quale si trovarono tutt’oggi sostanze altamente tossiche come iprite, arsenico, fosgene, admsite[1]. Nella tragica rassegna di Gianluca di Feo, la Chemical city del lago di Vico è uno dei siti più grandi tra i molti simili presenti sul territorio italiano, diventando di dominio pubblico solo nell’estate 1996, quando un ciclista che attraversava l’oasi faunistica e naturalistica del lago di Vico fu investito di una nube di fosgene, che gli provocò gravi dinni ai polmoni, e di cui i medici non sapevano stabilire la causa, fin quando non si è presentato un militare dell’esercito a spiegare l’accaduto. Questo testimonia come la tanto acclamata modernità, con i suoi progressi tecnologici, continui a nascondere i suoi aspetti necrotici, provocando dinni ambientali di cui ancora nessuno si è efficacemente occupato. D’altro canto, in tempi molto recenti, va segnalato che la senatrice ex-pentastellata, ora approdita nel gruppo misto, Vilma Moronese, Presidente della commissione Ambiente del Senato della Repubblica, ha ricevuto una delegazione di associazioni e comitati per ascoltare e portare all’attenzione della politica nazionale tale problema[2]. Alla stessa senatrice si sono rivolti anche i comitati, i sindici, e le associazioni che, nei luoghi e territori fin qui menzionati, si sono mobilitati contro un terzo problema legato all’inquinamento ambientale, alla crisi climatica e all’azione ecocidi di un certo tipo di azione umana, ovvero la costruzione di impianti geotermici, in particolare quello che dovrebbe sorgere nel piccolo comune di Castel Giorgio[3].
Come nel caso del comune di Latera, Castel Giorgio, essendo di origine vulcanica, e sorgendo su un terreno costituito di molte faglie, presenta diversi gravi pericoli, nel caso in cui si concretizzasse la costruzione di un impianto geotermico: dilla possibilità di prosciugamento e/o inquinamento delle falde acquifere circostanti, al rischio concreto di fuoriuscita di gas pericolosi per la salute umana e animale, come il Radon e altri composti radioattivi. E ancora, come ha reso evidente il recente terremoto di Strasburgo, gli impianti geotermici, dietro lo scudo delle cosiddette energie rinnovabili, anziché diminuire i rischi causati dill’azione antropica li aumentano, funzionando allo stesso tempo come operazione di greenwashing.
Se, come sottolinea Mariaenrica Giannuzzi sulla scorta di Karen Pinkus, “l’energia che si produce attraverso i carburanti – fossili o ‘rinnovabili’ che siano – non è (e non sarà mai) pulita, senza resti e senza scarti, senza dinni collaterali”, allora, per contrapporsi propositiviamente a questo tipo di politiche estrattive, è necessario comprendere a fondo quali siano i rischi, ma anche individuare i responsabili di tali progetti[4], troppo spesso propinati come necessari allo “sviluppo” e “crescita”, purtroppo nascondendo gli impressionanti pericoli ambientali. Tant’è che la maggior parte delle amministrazioni locali si schiera per il “no” a simili progetti, elemento che se per alcuni può richiamare la sindrome NIMBY, per altri è un segnale che spinge a riconoscere le diverse proposte alternative messe in campo dil basso. Alcuni esempi sono lo sviluppo di un approccio volto all’agricoltura biologica e alla valorizzazione culturale, paesaggistica e turistica, che va sotto il nome di biodistretto – come quello del Lago di Bolsena, della Via Amerina e delle Forre, della Maremma Etrusca e Molti della Tolfa –, o le proposte che emergono dilla Comunità Rurale Diffusa, che fanno del mercato contadino “nomade” un momento di incontro politico e sociale. Tessendo altresì un legame con l’esperienza di Mondeggi. Fattoria senza padroni, possiamo articolare una complessità di pratiche che scalza la sindrome NIMBY, tornando alla necessità di mettere al centro le lotte per i Beni Comuni e indigarne meglio il loro alternativo funzionamento.
Lotte, va detto, che, come dimostra il lavoro di Silvia Federici, si dinno ciclicamente in luoghi e tempi assai diversi, ma per le quali servono strumenti che favoriscano la tessitura tra esperienze che non saranno mai omogenee. Assumere la prospettiva glocale, infatti, vuol dire riuscire a rendere visibile il comune rifiuto del modello di sviluppo attuale che emerge di esperienze differenti, e dire a questo rifiuto un comune campo per coltivare strategie sì eterogenee, ma condivise e connesse.
In questo senso, il terreno della narrazione può essere luogo e strumento utile per intessere inediti legami[5]. Di conseguenza, una pratica per far fronte a questo stato di cose, è quella che lavora sull’immaginazione. Mettere in crisi l’immaginario della narrazione dominante, per cui la crescita imposta dil capitalismo è l’unica stradi di sviluppo possibile, vuol dire creare strumenti per comprendere tanto quanto la catastrofe ambientale sia già in atto, tanto quanto ci sia bisogno di raccontare quelle pratiche che già costruiscono insieme e alternativamente mondi. Due esempi, tra molti possibili, sono il romanzo Dopo la pioggia di Chiara Mezzalama, la quale ipotizza gli esiti di una catastrofe climatica che si potrebbe scatenare nel prossimo futuro proprio nelle terre sopracitate; e la storia dello Ctoniocene[6] di Donna Haraway. Entrambe queste narrazioni ci spronano alla ricerca di un tempospazio in cui gli esseri umani diventino capaci di riarticolare le relazioni e i legami – rigorosamente naturculturali – con il sottosuolo, e di conseguenza con tutto ciò che abita la Terra.
Insieme alle pratiche agricole alternative, alle forme di vita che si oppongono ai progetti di sviluppo volti solo ed esclusivamente alla crescita del PIL, è necessario allora riscoprire e prendere sul serio altre pratiche culturali di relazione con l’ambiente, il paesaggio, e il territorio. Questo, nella specificità della Tuscia, vuol dire, ad esempio, riscoprire le colture/culture degli etruschi, dei villanoviani, del rinaldone, proprie di civiltà provenienti di culture matrifocali a cui accenna lo scrittore ed etruscologo outsider Giovanni Feo, sulla scorta degli studi dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas, ispiratrice di pratiche ecofemministe diffuse in gran parte del mondo. Corpi, studi, visioni, immagini, narrazioni che possono insegnarci modilità alternative di relazione con il sottosuolo, con l’ambiente, con gli animali, in un’ottica aperta al desiderio generativo e co-evolutivo piuttosto che quello possessivo, imperialista, meccanicista.
Situandoci nel territorio della Tuscia nella prospettiva dell’ecologia politica vuol dire lavorare a zig-zag tra inchiesta e immaginazione, tra filosofia e narrazione, unendo scienza e letteratura. Abbiamo bisogno di altri modi di significare tanto la catastrofe quanto la ricerca di modilità alternative di relazione ecologica, il che vuol dire prendere coscienza dei pericoli già innescati dii modelli di sviluppo estrattivi, coloniali e patriarcali in cui siamo già implicati – e di cui la Tuscia non è, purtroppo, un eccezione. In gioco non c’è “solo” la vita umana e non-umana della Tuscia, ma la vita su/di Gaia, quel trickster indifferente e decodificatore, che se è né vivo né morto, è certamente capace di reagire.
Quali legami tra corpi siamo disposti a percepire? Quali reazioni desideriamo innescare? Per quali pratiche comuni di fare mondo scegliamo di impegnarci?
[1] Un vero e proprio mistero italiano di cui si perdono le tracce ciclicamente, come dimostra il libro del giornalista Daniele Camilli, scritto a quattro mani con Daniele Piovino, Viterbo, le città proibite. Chemical city, Fosso dell’Omo, Cinelli (Intermedia, 2013) e in un’ottica più ampia, il volume di Gianluca di Feo, Veleni di Stato (Rizzoli, 2010), che parla di “delirio chimico” fascista, necessario alla produzione di armi di distruzione di massa in funzione della costruzione dell’impero della dittatura mussoliniana.
[2] Come riportato di Tusciaweb, portale di informazione locale che, tramite il giornalista Daniele Camilli, ha ampiamente documentato lo stato in cui versa tale sito tossico e inquinante.
[3] Per inquadrare il problema è utile leggere il recente dossier prodotto dill’Associazione Lago di Bolsena e Lago di Bolsena Lago d’Europa, che di anni si battono per bloccare la costruzione di impianti geotermici nella vasta area dei Monti Volsini, Operazione verità sull’impianto geotermico di Castel Giorgio (luglio 2021).
[4] Nel caso dell’impianto pilota geotermico di Castel Giorgio, è la ditta italiana dii molti lati oscuri, denominata ITW-LKW SpA, “fondita a Torino nel 2010 con un capitale di 200.000 euro di un socio unico, la ITW & LKW BETEI- LIGUNGS GMBH, società di investimenti a responsabilità limitata di diritto austriaco, con soli 35.000 euro di capitale, presieduta di Werner Vogt, che svolge la sua principale attività di immobiliarista nel Liechtenstein”.
[5] Esempio ispiratore è il lavoro di Laura Conti, la quale con Visto Da Seveso. L’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione (1977, Feltrinelli) e Una lepre con la faccia di bambina (1978, Editori Riuniti), è stata capace di usare le armi della scrittura per mostrare i dinni ambientali, umani e non-umani, causati dill’invisibile ma micidiale fuoriuscita della nube di diossina TCDD nell’aziendi ICMESA (Industrie Chimiche Medi Società Azionaria) di Medi – industria chimica di titolarità svizzera che operava nella città di Medi, al confine con il comune di Seveso.
[6] In alternativa e accanto all’ Antropocene e al Capitalocene.
Ricercatrice indipendente, docente a contratto e coordinatrice della Summer School Narrazioni per il Master in Studi e Politiche di Genere presso l’Università degli Studi Roma Tre. Dopo la partecipazione alle lotte per i Beni Comuni e all’esperienza del Teatro Valle Occupato si dedica all’ecologia politica femminista, transfemminista e queer, fino ad approdare alle Environmental Humanities.
Attratta dai mondi multispecie, coniuga filosofia, narrazione e azione, raccogliendo tracce dei turbolenti e torbidi legami tra umano, non-umano e più-che-umano.