
L’orrore si cela spesso sotto il volto più familiare. Una semplice pagina Facebook, apparentemente innocua, nascondeva una delle derive più inquietanti della cultura digitale contemporanea: la condivisione non consensuale di immagini intime di donne da parte dei loro partner (mariti, fidanzati). Il gruppo, intitolato in modo più che didascalico Mia moglie, raccoglieva oltre 32.000 iscritti, un numero che da solo racconta la vastità del fenomeno. Ma dietro i numeri, ci sono persone, vite, dignità violate dalle persone di cui ci si dovrebbe fidare di più.
Pornografia del quotidiano
Le immagini condivise non mostravano scene esplicitamente sessuali, ma momenti di quotidianità: donne in costume al mare, in pantaloncini mentre cucinano, che dormono sul divano. Scene intime, spesso rubate. A pubblicarle erano, secondo quanto emerso, mariti o compagni, che le accompagnavano con commenti ironici, ammiccanti, talvolta esplicitamente sessisti. Nessun consenso, nessun rispetto. Solo un senso di possesso che trasforma l’intimità coniugale in esibizione pubblica.
Una denuncia collettiva
La reazione non si è fatta attendere. L’associazione No Justice No Peace, da tempo impegnata nella campagna Not All Men, ha denunciato pubblicamente il gruppo, definendolo un caso lampante di divulgazione di materiale non consensuale e misoginia organizzata. La pagina è stata segnalata in massa, anche grazie alla mobilitazione di attiviste e influencer femministe come Carolina Capria, che ha sottolineato come la dinamica di potere all’interno della coppia venga spesso normalizzata fino a scivolare nell’abuso. Per molti, la mancanza di consenso sembra non rappresentare un ostacolo, ma piuttosto un elemento di eccitazione.
Il confine tra pubblico e privato
La facilità con cui è possibile condividere immagini, l’apparente banalità degli scatti, e il clima complice all’interno del gruppo, sollevano interrogativi profondi su cosa intendiamo oggi per privacy. Non si tratta solo di violazione della riservatezza, ma della spettacolarizzazione di una relazione in cui il consenso è dato per scontato, come se l’intimità fosse un diritto acquisito una volta ottenuto un legame affettivo. Un errore culturale profondo, che va ben oltre il singolo episodio.
Una questione di legge (e di cultura)
La diffusione di immagini intime senza consenso è un reato previsto dall’articolo 612-ter del Codice Penale italiano, con pene che possono arrivare fino a sei anni di reclusione. Ma la lentezza con cui queste norme vengono applicate nel contesto digitale evidenzia una carenza strutturale. Troppo spesso, la violenza digitale viene percepita come meno reale. In realtà, le sue conseguenze psicologiche e sociali sono devastanti. La vicenda del gruppo Mia moglie ricorda tragicamente casi come quello di Tiziana Cantone: morta suicida dopo la diffusione virale di un suo video intimo senza consenso, diventata simbolo del revenge porn.
Non è un caso isolato
Questa vicenda non è un’anomalia, ma il sintomo di un sistema culturale che fatica a riconoscere il valore del consenso come fondamento delle relazioni. Serve una risposta collettiva: giuridica, certo, ma anche educativa, sociale, politica. Ogni condivisione senza permesso è una forma di violenza. E ogni spettatore silenzioso, un complice.