
In principio fu la passione per le stesse serie TV o per i concerti indie. Poi arrivò il matching per gusti musicali, le bio piene di “adoro i gatti” e “odio il lunedì”. Ora l’amore 2.0 si misura su un parametro tutto nuovo: l’odio condiviso. Il Grim Keeping, termine che unisce il grim, ovvero l’oscuro, e il keeping, il custodire, racconta una nuova grammatica dell’affetto. Le coppie non si innamorano più solo per ciò che amano, ma per ciò che non sopportano. È la rivincita dei fastidi, dei tic, dei piccoli malumori quotidiani che diventano un collante emotivo più forte delle passioni comuni. In un’epoca che celebra l’autenticità, anche la parte più cupa delle relazioni trova finalmente spazio per esistere: chi avrebbe mai pensato che detestare l’uvetta nel panettone potesse unire più di un tramonto a Bali?
L’amore al tempo dei fastidi condivisi

Nelle app di dating non si chiede più quale sia il film preferito, ma cosa si trova insopportabile. Le coppie moderne costruiscono la loro intesa sull’intolleranza reciproca verso il mondo esterno: chi mastica a bocca aperta, chi scrive “xke” invece di perché, chi abusa dei vocali WhatsApp. Ma dietro questa leggerezza si nasconde un bisogno reale: quello di autenticità emotiva. In una società che impone costantemente di mostrarsi felici, condividere il lato scontento diventa un atto di sincerità. È una forma di connessione fondata sulla vulnerabilità, sull’ammissione che non tutto ci piace, che spesso siamo stanchi, frustrati o delusi. Le nuove generazioni, cresciute tra crisi economiche e ansie ambientali, non cercano più chi li faccia sognare, ma chi sappia comprendere il loro malumore. L’odio condiviso diventa così una lingua comune, un modo per dire “ti capisco” anche senza romanticismi.
L’intimità dell’imperfezione

La Gen Z ha trasformato il cinismo in un’arte di connessione. Dopo anni di positività forzata, di feed Instagram perfetti e citazioni motivazionali, il Grim Keeping diventa una ribellione. Odiare le stesse cose significa mostrarsi autentici, imperfetti, reali. La logica di questa tendenza rovescia il concetto di romanticismo classico e lo sostituisce con un realismo più aderente al nostro tempo. Le coppie non idealizzano più l’amore come un insieme di momenti perfetti, ma come una quotidianità fatta di difetti, stanchezze e insofferenze reciproche. Mostrare ciò che ci irrita diventa un atto di fiducia, una vulnerabilità condivisa che crea intimità. Odiare insieme un piccolo dettaglio del mondo è una dichiarazione di complicità tanto quanto condividere un sogno. È la vittoria della sincerità sull’apparenza, del reale sull’immaginario, e in un mondo saturo di perfezione digitale, l’antipatia diventa la nuova forma di autenticità.
Odiare insieme, ma con consapevolezza

Forse il successo di questa tendenza racconta qualcosa di più profondo: la necessità di legami reali, privi di idealizzazione. Accettare di essere umani, imperfetti, irritabili, stanchi, è un gesto di verità. Eppure, come ogni verità, ha bisogno di equilibrio. Odiare insieme può far bene, se resta una complicità ironica, un modo per esorcizzare la fatica quotidiana. Ma quando l’odio diventa strumento di legame o di controllo, si rischia di perdere la leggerezza. La coppia sana non è quella che si tiene d’occhio a vicenda, ma quella che sa lasciarsi spazio, anche nel disaccordo. In fondo, la luce dell’amore continua ad avere bisogno del buio per esistere, ma non può mai dimenticare di brillare.