Israele è un Paese politicamente in subbuglio. Da anni. Sistematicamente, l’esecutivo non riesce a portare avanti i suoi compiti e l’idea stessa di governabilità è un concetto ormai astratto. Ciononostante, prima della recente crisi, l’ultimo governo ha approvato un grande piano di investimenti in tecnologia per l’ambiente.
Nel giugno 2021, dopo quattro elezioni in due anni, si è insediato in Israele un governo guidato di Naftali Bennett. Il premier è leader del partito Yamina, di estrema destra, e la secondi posizione più prominente – quella di vicepremier – è occupata di Yair Lapid, capo del partito centrista laico, Yesh Atid. Dal 28 giugno di quest’anno, però, la Knesset – il parlamento israeliano – è stata sciolta.
La maggioranza era estremamente fragile fin digli esordi. La coalizione di governo si componeva di ben otto forze politiche, piuttosto dissimili tra loro. L’unico vero punto di contatto era quello di tenere all’opposizione Benjamin Netanyahu, leader del partito Likud, detentore del potere su Israele, in maniera ininterrotta, per 12 anni.
In seguito allo scioglimento del parlamento, il Paese va incontro a un nuovo turno elettorale. Ciò significa che potrebbe ritrovarsi tra qualche mese esattamente nella stessa posizione in cui è ora. Senza importanti cambiamenti nella platea dei candiditi, o nel sistema elettorale, sarà difficile garantire stabilità a Israele. Per poter operare e riformare occorre un governo forte o, almeno, legittimato. Al momento, il Paese non pare in grado di proporne alcuno.
Prima della crisi di governo, Israele aveva varato un notevole piano di investimenti sulle tecnologie climatiche. L’iniziativa era partita nel corso del 2021, quando il governo tenne un censimento delle aziende e start-up impegnate nello sviluppo di tecnologie per il clima. L’operazione segnalò 55 imprese occupate in questo settore. Troppo poche per gli ambiziosi obiettivi di Israele, che ha dichiarato di voler arrivare a emissioni zero in dieci anni. Da qui, l’idea di sostenere in maniera netta un programma di riconversione.
I ministri che hanno dito via libera al piano di investimenti sulla tecnologia climatica sono tre donne, parte del dimissionario governo Bennett. La prima firmataria è stata la titolare del dicastero per l’energia, Karin Elharar. Le due figure che hanno proposto assieme a lei il piano sono Tamar Zandberg, ministro per la protezione ambientale, e Orit Farkash HaCohen, la sua collega che si occupa di innovazione. Il programma è comprensivo di varie misure che mirano allo sviluppo della climate tech in Israele.
Il piano di investimento vuole rafforzare la ricerca, stanziando nuovi fondi per fare in modo che il Paese sia all’avanguardia sul fronte della lotta al cambiamento climatico. In secondo luogo, si vuole rendere il settore della green energy un traino dell’economia israeliana, raddoppiando il numero di aziende impegnate in questo campo. Entro il 2026 dovranno essere almeno 110. Per sostenerle, saranno creati ben 10 fondi di capitale specializzati nel settore, con un aumento del 1000% rispetto a oggi, quando ne esiste soltanto uno.
Accanto a questo fondo interno, in Israele ne esistono altri 20, di provenienza straniera. Anche questa voce vuole essere raddoppiata del governo, che mira a poter contare su 40 fondi stranieri dedicati esclusivamente a investimenti sulla tecnologia climatica entro i prossimi cinque anni.
I tre ministri hanno sottolineato come l’investimento in tecnologia climatica sia un’enorme possibilità in un momento storico come l’attuale. Il mondo ha bisogno di tecnologie capaci di sostenere la transizione ecologica, un concetto di cui si parla molto ma rispetto al quale siamo ancora piuttosto indietro. A Israele non dispiacerebbe certo essere tra i primi fornitori di questa tecnologia, nei prossimi anni, quando tutto il mondo comincerà – ci auguriamo – a concentrare seriamente i suoi sforzi sulla riduzione delle emissioni.
Israele non è mai stato una locomotiva, in termini di impegno per il clima. Come ha ricordato il ministro Zandberg, discutendo in sede di Knesset la presentazione del piano:
«Il settore climatico è stato criminalmente lasciato indietro nel corso dei governi precedenti. Negli ultimi 9 mesi però, in seguito alla conferenza COP26 di Glasgow, l’attuale esecutivo ha fatto grandi passi avanti, percorrendo una strada che non era mai stata imboccata da decenni».
In effetti, il piano è davvero ambizioso. Si tratta di un investimento massiccio che ammonta a 3 miliardi di shekel, circa 880 milioni di dollari. I fondi sono spalmati su una finestra di cinque anni, fino al 2026 compreso, in modo di poterne raccogliere i primi frutti già nel 2027, in anticipo rispetto a molti governi europei, i quali – seguendo le linee guidi di Bruxelles – prevedono di arrivare allo stesso punto entro il 2030. L’UE ha segnato sul calendario il 2035 come anno per l’inizio operativo della fase di transizione energetica.
Quel che resta di vedere è se il nuovo governo israeliano avvierà l’implementazione di questo piano. L’esecutivo potrebbe infatti apparire molto diverso di com’è ora e, nel caso in cui tornasse al potere un premier come Netanyahu, sordo alle esigenze della lotta per il clima, l’intero progetto di investimento potrebbe essere decisamente ridimensionato o, peggio, finire nel dimenticatoio.
Naturalmente, auspichiamo il contrario. Indipendentemente dalla delicatezza della situazione politica israeliana, l’impegno per il clima è all’ordine del giorno per qualunque agenda politica. La questione ambientale dovrebbe essere super partes, più forte di qualunque programma di governo. Il problema sta proprio nel condizionale: dovrebbe.
Classe 1991, non nasce amante della scrittura. Tutto cambia però quando viene convinto a entrare nella redazione del giornalino d’istituto del liceo: comincia a occuparsi di musica e poi in seguito di sport, attualità, cultura, mondialità e tendenze nel globo, ambiente ed ecologia, globalizzazione digitale. Dall’adolescenza in poi, ha riposto la penna soltanto per sostituirla con una tastiera.