Le società tecnologiche che si occupano di sostenibilità sono sempre di più: nel mondo si respira voglia di cambiamento. Rispetto e tutela dell’ambiente sono due parole chiave in questo tempo, e la finanza pare averlo capito. Non a caso, stiamo assistendo alla nascita di un numero altissimo di startup legate al settore della climate tech. La tendenza non è nuova, poiché si tratta di un trend avviato ormai da oltre 10 anni.
Ultimamente, però, sembrava che gli investitori avessero smesso di reputare il settore redditizio. Se a cavallo del 2015 si stimava che questa economia sarebbe stata quella destinata a raccogliere finanziamenti a pioggia nel prossimo futuro, in tempi più recenti gli investimenti nel settore sono drasticamente diminuiti. Dal termine della fase pandemica più acuta, ad ogni modo, stiamo assistendo a un ritorno di interesse considerevole.
I numeri ci dicono che, nel 2019, furono investiti meno di 15 miliardi di dollari, a livello globale, nella climate tech. Soltanto due anni dopo, nel 2021, quando avevamo già conosciuto l’incubo Covid-19 e le implicazioni ambientali legate allo spillover tra specie, tale cifra ha raggiunto i 53 miliardi. Presto verranno resi noti i dati relativi allo scorso anno e ci si attende, quanto meno, di eguagliare tale somma.
Perché un settore che doveva esplodere 10 anni fa ha riscontrato una simile carestia di investimenti? Secondo l’analisi di TechCrunch i motivi sono principalmente due: la recessione dovuta alla crisi economica innescata dai mutui sub-prime, che ha causato il fallimento della banca Lehman Brothers e il domino mondiale che ne è scaturito, nonché il calo dei prezzi del gas, diminuiti fino all’80% tra il 2008 e il 2012.
Oggi il contesto geopolitico e sociale è mutato, la sensibilità ambientale si è acuita e i prezzi del gas stanno fluttuando. L’industria più forte degli ultimi tempi, Big Tech, sta conoscendo una frenata considerevole; così netta che diversi investitori potrebbero rinunciare ad avvicinarvisi. La climate tech – o clean tech, secondo l’altro nome con cui è nota – il campo delle soluzioni tecnologiche che mirano a contrastare il cambiamento climatico, si trova invece al centro delle attenzioni di chiunque voglia raccogliere dividendi.
Un report firmato PricewaterhouseCoopers (PwC) risalente allo scorso anno afferma come oltre un quarto degli investimenti di venture capitalists oggi vada a favore di clean startup: auto elettriche; cemento a emissioni zero; idrogeno verde; tecnologie per ridurre l’anidride carbonica, produrre energia pulita o innovare la produzione agricola, ottimizzando irrigazione e resistenza alle temperature elevate. Le aziende impegnate in queste mansioni, e altre con lo stesso obiettivo di favorire la transizione energetica dandoci mezzi per attuarla, stanno beneficiando molto dell’improvviso interesse di chi possieda capitale e desideri investirlo.
Grazie a questo nuovo vento, che soffia forte sulle vele, negli ultimi sei anni sono nati ben 47 unicorni – ovvero startup valutate oltre un miliardo – operanti nel settore della climate tech. 28 di questi soltanto nel 2021. Gli Stati Uniti sembrano essere il Paese dove il rischio d’impresa spaventa meno: non a caso, 26 di queste aziende sono sorte a quelle latitudini. Seguono Cina e Germania.
A onor di cronaca, gli States sono anche il Paese ove il mercato si è flesso di più, come testimonia il caso della californiana Bird, azienda produttrice dei monopattini elettrici che spopolano anche nelle nostre città, capace di perdere addirittura il 98% del suo valore negli ultimi 24 mesi.
Vi sono però anche scenari opposti, come ad esempio quello della regina del climate tech, il modello cui tutti aspirano: la svedese Northvolt. L’azienda produce batterie elettriche per automobili e vale 12 miliardi di dollari. È utopistico pensare che tutte le altre startup impegnate in questo campo possano aspirare a tanto ma non va escluso che possa esserci qualche giovane startup destinata ad avere un simile successo.
L’ambito energetico, comprendente principalmente chi produce tecnologie per batterie o sfrutta fonti solari ed eoliche, è quello che va per la maggiore. Le aziende impegnate in questo campo sono numerose e, generalmente, ottengono i finanziamenti più cospicui.
Viste le forze in campo e la fiducia dei grandi capitali, non resta che domandarci: davvero un settore come quello delle tecnologie per il clima può salvare il Pianeta, allontanandolo dal ciclo autodistruttivo innescato dall’attività umana e che sta già alterando i ritmi della Terra? L’economia del futuro sarà sospinta dalle realtà operanti nel climate tech?
«L’idea che la tecnologia riuscirà a mitigare appieno le conseguenze economiche del cambiamento climatico non sembra essere supportata dai dati che abbiamo.»
Ha affermato Jacob Moscona, ricercatore di Harvard e autore di un approfondimento sull’adattamento dell’agricoltura al cambiamento climatico pubblicato dal “Quarterly Journal of Economics”. Secondo quanto afferma lo staff di esperti che ha redatto il dossier, citato anche dal quotidiano “Domani”, varie soluzioni in sviluppo in questi anni non possono aiutare tutti, poiché incapaci di funzionare ovunque.
«Il mais resistente alle ondate di calore progettato per aiutare i contadini nel Midwest statunitense non funzionerà in India. Là i patogeni e i parassiti potrebbero essere completamente diversi. […] Potrebbero esserci cambi di paradigma che renderanno più facile limitare i danni. Per esempio, grossi cambiamenti negli strumenti biotecnologici potrebbero permetterci di creare varietà di mais che potranno sopravvivere a ondate di calore e agenti biologici nocivi.»
Lo studio si è concentrato sull’agricoltura ma ci fa riflettere. Estendendo quanto sottolinea Moscona, ci sorgono spontanee alcune domande: siamo sicuri che le tecnologie energetiche basate sugli agenti atmosferici possano avere successo in ogni fascia climatica? E le startup che necessitano di investimenti esosi e tecnologie avanzate potranno essere avviate in Paesi sottosviluppati? E ancora, come possiamo sapere se davvero le innovazioni pensate per arginare fenomeni estremi in futuro ci aiuteranno o meno, durante le annate regolari.
Dagli anni Sessanta a oggi soltanto il 20% dei danni ecologici potenziali causati dal cambiamento climatico è stato mitigato grazie alle nuove tecnologie, come leggiamo nello studio. Per i prossimi ottant’anni, si stima che tale percentuale non supererà il 13%. A leggere queste cifre, la risposta alla domanda che intitola questo articolo appare chiara. La tecnologia può favorire la transizione, però da sola non basta. Dunque che fare?
La strada da seguire la conosciamo: dobbiamo ridurre le emissioni.
Crediti fotografici: Biel Norro su Unsplash
Classe 1991, non nasce amante della scrittura. Tutto cambia però quando viene convinto a entrare nella redazione del giornalino d’istituto del liceo: comincia a occuparsi di musica e poi in seguito di sport, attualità, cultura, mondialità e tendenze nel globo, ambiente ed ecologia, globalizzazione digitale. Dall’adolescenza in poi, ha riposto la penna soltanto per sostituirla con una tastiera.