Labubu: l’ennesimo fenomeno virale di cui forse non avevamo bisogno

Dal boom mondiale di POP MART alle code milanesi, Labubu non è più un giocattolo ma un’icona culturale che intreccia marketing, estetica e psicologia del consumo, raccontando il volto ironico e inquieto del nostro tempo.

Labubu: l’ennesimo fenomeno virale di cui forse non avevamo bisogno - immagine di copertina

    Nato come un piccolo esperimento creativo e trasformatosi in un vortice commerciale globale, Labubu non è un semplice giocattolo: è un simbolo, una creatura capace di incarnare i meccanismi più raffinati — e forse più inquietanti — del desiderio contemporaneo. Questo mostriciattolo dal sorriso sghembo dai denti aguzzi non si limita a essere un oggetto da acquistare ma da vivere, esibire, condividere. La sua ascesa racconta molto più di un fenomeno pop: parla del modo in cui la cultura digitale, la moda e il marketing hanno imparato a fondersi in un’unica macchina del desiderio, capace di trasformare un semplice oggetto in un culto collettivo.

    Origine e anatomia del mostro carino

    Dietro la creazione di Labubu si nasconde la fantasia di Kasing Lung, illustratore nato a Hong Kong e cresciuto nei Paesi Bassi, che nel 2015 crea The Monsters, un universo popolato da creature imperfette, malinconiche, empatiche. Quando il colosso cinese POP MART ne intuisce il potenziale commerciale, la piccola creatura si trasforma da personaggio illustrato a oggetto del desiderio globale.

    Labubu ha un corpo minuto e peloso, due grandi orecchie a punta e un sorriso sgraziato pieno di denti aguzzi. I suoi occhi tondi e lucidi oscillano tra l’innocenza e la malizia, creando un contrasto disarmante. È un mostro carino, a metà strada tra un elfo e un incubo. Ed è proprio questa bivalenza che diventa l’elemento vincente: un volto che cattura lo sguardo, perfettamente adatto ai ritmi visivi di TikTok e Instagram. Non ha bisogno di spiegazioni, parla per immagini, in modo immediato e universale. È la sintesi perfetta del nostro tempo: un’icona che fonde estetica kawaii e malinconia da cartoon anni ’90.

    La macchina della viralità

    Dietro ogni fenomeno virale c’è una strategia chirurgica. Labubu è il risultato di una costruzione perfetta, una coreografia tra marketing e psicologia. La chiave sta nel meccanismo delle blind box, le scatole misteriose che nascondono il contenuto. L’acquirente compra l’ignoto, spera, rischia, gioca, non compra un oggetto, compra l’attesa, il brivido della rivelazione. È la gamification del consumo, in pratica.

    Intorno a questo rituale si muove l’universo dei social. L’unboxing diventa spettacolo, il momento dell’apertura un piccolo rito digitale: mani che tremano, forbici che tagliano il sigillo, occhi che cercano la rarità. TikTok amplifica, Instagram consacra, l’algoritmo moltiplica. Poi arrivano le celebrità: Lisa delle Blackpink mostra il suo Labubu come accessorio da borsa, e la miccia esplode. Il successo non nasce solo dall’oggetto, ma dal modo in cui si racconta.

    La Labubu mania in Italia

    Se la scintilla nasce in Asia, l’Italia non resta a guardare: Milano è il cuore pulsante della mania europea. Quando POP MART apre il suo primo store in Corso Buenos Aires, nell’estate del 2024, la scena sembra quella di un’uscita di iPhone o di un concerto rock. Centinaia di persone in fila, studenti e impiegati, famiglie e curiosi. L’atmosfera è quella dell’evento, dell’esperienza collettiva che si trasforma in racconto digitale: le code diventano stories, l’attesa diventa contenuto, la condivisione un’estensione dell’acquisto.

    Il fenomeno non si ferma al capoluogo lombardo: Roma, Torino, Venezia e Napoli ospitano comunità di collezionisti sempre più attive, negozi specializzati e rivenditori online che spediscono in tutta Italia. Anche i grandi marchi retail si sono accorti del potenziale: MediaWorld, Deda Roma e altri rivenditori hanno iniziato a proporre le serie POP MART accanto ai prodotti tecnologici, segno che il giocattolo da collezione è ormai considerato un oggetto di lifestyle.

    A Milano, intanto, la connessione con la moda è naturale. I Labubu si trasformano in accessori, mascotte da borsa o da scrivania, piccole sculture urbane che rispecchiano la vitalità e l’ironia della città. L’universo fashion li accoglie come elemento estetico, integrandoli nel proprio linguaggio visivo. È qui che la Labubu mania assume la sua forma più compiuta: un cortocircuito tra design, tendenza e consumo emotivo.

    Labubu e il capitalismo dell’emozione

    C’è qualcosa di profondamente rivelatore nel modo in cui Labubu si è insinuato nella nostra quotidianità. La sua non è semplice popolarità: è un caso di studio perfetto del capitalismo contemporaneo, quello che non vende più beni ma sentimenti, non propone oggetti ma rituali. Ogni blind box è una micro-narrazione del desiderio: attesa, eccitazione, sorpresa, delusione, reiterazione. Il sistema POP MART ha trasformato l’acquisto in un’esperienza emotiva continua, un meccanismo di piacere e frustrazione che si rigenera a ogni apertura.

    Labubu rappresenta la forma più docile del consumo programmato, quella che non impone ma seduce, che non spinge ma accompagna. La logica della scarsità — l’edizione limitata, il pezzo raro, la collaborazione esclusiva — è strategia di marketing e allo stesso tempo linguaggio culturale. La rarità diventa valore morale, la difficoltà di possedere diventa prova di appartenenza.

    È in questo passaggio che Labubu smette di essere un giocattolo e diventa un dispositivo del capitalismo emozionale: l’infanzia come simulacro, la sorpresa come prodotto, l’acquisto come catarsi. Labubu è l’innocenza resa profitto, la tenerezza confezionata in plastica: funziona perché parla al bambino che il capitalismo tiene in vita dentro ognuno di noi, quello che vuole ancora credere che la felicità possa trovarsi in una scatola — purché sia in edizione limitata.

    Un esperimento sociale

    Labubu non è solo un giocattolo. È un esperimento sociale, una lente che ingrandisce la fragilità di un’epoca in cui il possesso è diventato sinonimo di appartenenza e l’ironia una forma di difesa. Il suo successo è una parabola della nostra relazione con il consumo: irresistibile, ripetitiva, dolcemente inquietante.

    Quasi sicuramente non ne avevamo bisogno. Ma il suo sorriso storto, riflesso in milioni di schermi, ci ricorda che il bisogno, oggi, non è più ciò che sentiamo: è ciò che ci viene mostrato.

    tags: attualità

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