Immagina la scena: sei fermo al semaforo con il traffico immobile, il podcast che hai scelto non è dei più accattivanti, stai pensando a cosa mangiare per cena e… zac! L’unghia viene aggredita come se ti avesse fatto un torto personale. Aspetta un attimo: stai, letteralmente, mangiando una parte di te? A questo punto è lecito chiederselo: mangiare le unghie è una forma di cannibalismo? Una domanda che ha il sapore (sì, è proprio il caso di dirlo) del paradosso, ma che apre uno spiraglio quanto mai avvincente sulla psicologia, l’antropologia e persino la filosofia del comportamento umano.
Cannibalismo: come qualificarlo
Se partiamo dal vocabolario, il cannibalismo in stricto sensu si configura come l’atto durante il quale un essere vivente si ciba della carne di un appartenente alla propria specie. Il termine deriva dai Caniba, nome con cui Cristoforo Colombo identificò una popolazione caraibica sospettata di praticare tale macabra usanza. Di conseguenza verrebbe da pensare che, tecnicamente, il cannibalismo implichi la consumazione deliberata di un tessuto organico umano per fini nutritivi o, al massimo, per rituali, pratiche religiose e atti simbolici.
L’arte malsana di mangiare le unghie
Mangiarsi le unghie ha anche un nome elegante: onicofagia. Non si classifica solo come un vezzo nervoso praticato da adolescenti annoiati tra i banchi di scuola o da impiegati dilaniati da riunioni infinite. Si tratta, al contrario, di un vero e proprio comportamento compulsivo riconosciuto come un disturbo del controllo degli impulsi, alla stregua di tirarsi i capelli (tricotillomania) o grattarsi l’epidermide (dermatillomania). Le cause sono spesso legate a stati d’ansia, di stress e frustrazioneche possono sfociare in una questa quotidiana cattiva abitudine.
Un (in)utile autoconsumo
Considerato quanto descritto, mangiare una parte di sé stessi, seppur sia un po’ inquietante, non si qualifica come cannibalismo a meno che questa azione non venga compiuta con il fine di nutrirsi. Le unghie, poi, essendo una struttura protettiva per le estremità delle dita, sono composte da cheratina (la stessa sostanza che troviamo nei capelli e nelle piume degli uccelli per intenderci), e non di carne. Insomma, non proprio una bistecca. E neppure allargando il campo d’azione, comprendendo pellicine, crosticine o la pelle secca delle labbra, potremmo considerarci come degli aspiranti Hannibal Lecter. Questa abitudine autolesionista lieve si configura come una forma di autoconsumo non nutritivo; in altre parole, non mira ad assorbire nutrienti ma a cercare sollievo emotivo. Un gesto simbolico, spesso inconscio, più che gastronomico. Un piccolo rituale di controllo sul caos moderno più che una rievocazione delle tribù indigene.
Piccoli morsi d’inquietudine
Da un punto di vista filosofico mangiare le unghie si presenta come un bizzarro paradosso: un atto di distruzione e, al tempo stesso, di autocura. Esattamente come il pappagallo che si spenna dopo la morte del proprio partner a causa del malessere (deplumazione), mangiare le unghie può essere considerata come una pratica di ritorno a noi stessi: ci danneggiamo per sentirci meglio, per esorcizzare l’attesa, l’ansia, la noia. Quindi no, non è cannibalismo. Forse qualcosa di ancora più affascinante: una piccola forma di dialogo corporeo, un segnale che il nostro corpo (e la nostra mente) ci manda. È un comportamento che parla e che dice molto di come ci sentiamo. Ogni morso è un messaggio, forse è tempo di tradurlo.
Quindi, possiamo tirare un sospiro di sollievo: mangiare le unghie non fa di noi dei cannibali. E magari, invece di unghie, meglio masticare una gomma.
