
A oltre 3000 metri sotto la superficie dell’oceano, nel buio più assoluto e sotto pressioni immense, si nasconde una nuova frontiera del capitalismo estrattivo. Si tratta di minuscole sfere metalliche adagiate sul fondale marino: i noduli polimetallici. Al loro interno, un concentrato di elementi cruciali per la cosiddetta transizione ecologica: nichel, cobalto, manganese e rame. Questi metalli sono fondamentali per costruire batterie, auto elettriche, turbine eoliche, pannelli solari. In sostanza, per alimentare il passaggio da un’economia fossile a una teoricamente più pulita.
Tuttavia, ciò che potrebbe sembrare una svolta sostenibile, rischia di trasformarsi in un disastro ambientale di proporzioni planetarie.
Il fondale che vale quanto un continente
Secondo alcune stime, il valore potenziale delle risorse nascoste nei fondali oceanici supera i 16 trilioni di dollari. È una cifra che spiega la velocità con cui aziende private, startup minerarie e governi si stanno mobilitando per accaparrarsi le concessioni in acque internazionali. Il punto più caldo di questa corsa è la zona Clarion Clipperton, un’enorme fascia di fondale nel Pacifico tra il Messico e le Hawaii. Si estende per oltre 4 milioni di chilometri quadrati, più dell’intera Unione Europea, e ospita enormi concentrazioni di noduli polimetallici.
Ma non si tratta di un luogo sterile. La zona è considerata un hotspot di biodiversità abissale. Secondo gli scienziati, il 90 percento delle specie identificate durante le spedizioni di ricerca sono completamente nuove alla scienza. Molte di esse vivono direttamente sui noduli o tra di essi, rendendo queste strutture parte integrante dell’ecosistema marino profondo.
Raschiare il fondo dell’oceano
Per estrarre i noduli polimetallici, le compagnie stanno progettando giganteschi veicoli robotici, simili a mietitrebbie sottomarine. Questi macchinari scorrono sul fondale, aspirano i noduli insieme a tonnellate di sedimenti e li trasportano in superficie attraverso tubi verticali lunghi chilometri. Il problema è che l’operazione produce nuvole di sedimenti che si diffondono nell’acqua per decine di chilometri, soffocando la vita marina e compromettendo gli equilibri ecologici. L’interferenza con i microbi marini, tra cui quelli responsabili della produzione di ossigeno oscuro, potrebbe avere effetti su scala planetaria.
E non è tutto. Alcuni studi condotti su aree di test risalenti agli anni Settanta dimostrano che, a distanza di oltre quarant’anni, la biodiversità non si è ancora ripresa. In altre parole, i danni prodotti da queste attività potrebbero essere permanenti.
Geopolitica degli abissi
La corsa ai fondali marini non è solo una questione ambientale o industriale. È anche geopolitica. Il diritto internazionale prevede che le risorse delle acque internazionali siano patrimonio comune dell’umanità, ma in pratica le licenze per le esplorazioni vengono rilasciate da un ente poco conosciuto: l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini, con sede in Giamaica. Teoricamente dovrebbe gestire l’equilibrio tra sfruttamento e tutela, ma molti accusano questa istituzione di mancanza di trasparenza e di essere troppo compiacente con gli interessi delle aziende minerarie.
Alcune nazioni insulari del Pacifico, come Nauru, Kiribati e Tonga, si sono trasformate in sponsor di aziende minerarie private, offrendo la propria bandiera in cambio di promesse di sviluppo. Un esempio è The Metals Company, una delle realtà più aggressive del settore, che ha stretto alleanze con microstati per bypassare i vincoli delle grandi potenze. Questo ha innescato un nuovo colonialismo economico, dove nazioni vulnerabili vengono spinte a svendere i propri diritti ambientali in cambio di ipotetici benefici futuri.
Nel frattempo, mentre alcuni Paesi come Cina e Norvegia spingono per accelerare l’estrazione, altri come Francia, Germania, Cile e Costa Rica chiedono una moratoria globale. La comunità scientifica si è espressa chiaramente: non abbiamo ancora sufficienti dati per procedere in sicurezza.
Un investimento a rischio
Oltre agli impatti ambientali, c’è anche un’incertezza economica. Nonostante le valutazioni astronomiche, molti analisti dubitano che l’estrazione di noduli sia davvero redditizia nel lungo periodo. I costi operativi sono enormi e le tecnologie necessarie sono ancora in fase sperimentale. Inoltre, l’evoluzione delle batterie sta già riducendo la dipendenza da metalli come il cobalto. Se nei prossimi anni emergeranno alternative più economiche e sostenibili, l’intero settore potrebbe rivelarsi una bolla speculativa.
Transizione o distrazione?
Siamo di fronte a un paradosso. Per rendere il mondo più verde, rischiamo di distruggere uno degli ecosistemi più antichi e meno compresi del pianeta. La domanda non è se abbiamo bisogno dei metalli contenuti nei noduli polimetallici ma se abbiamo davvero bisogno di prenderli da lì. La corsa all’estrazione sottomarina è il sintomo di una transizione energetica impostata sulla continuità di un modello lineare di consumo, anziché su un vero cambiamento sistemico.
Se il futuro sostenibile che immaginiamo dipende dalla distruzione di habitat unici e dall’esaurimento di nuove risorse, possiamo ancora definirlo verde?
Forse è il momento di rallentare, di ascoltare la scienza e di ripensare il nostro rapporto con le profondità oceaniche. Perché una vera transizione ecologica non può nascere da una devastazione nascosta a 3000 metri di profondità.