
L’articolo 17 della Costituzione tutela il diritto dei cittadini a riunirsi pacificamente. È un caposaldo democratico, non un vezzo folkloristico per nostalgici del ’68. Eppure, il nuovo decreto sicurezza sembra guardare alle manifestazioni come a un fastidio da sedare, più che a un’espressione della sovranità popolare. Le nuove aggravanti penali legate ai cortei, infatti, ampliano la portata del reato di manifestazione non autorizzata e introducono criteri talmente vaghi da prestarsi a interpretazioni arbitrarie. Per capirci: gridare uno slogan potrebbe diventare condotta da codice penale. Se la legge deve essere chiara e prevedibile, qui siamo nel regno dell’ambiguità normativa — un terreno scivoloso, e decisamente poco costituzionale.
Sommario
- La rivolta secondo lo Stato: chi obbedisce sopravvive
- Privacy a senso unico: i servizi segreti vogliono sapere tutto
- L’agente sotto inchiesta? Nessun problema, paga lo Stato
- Emergenza immaginaria, Parlamento marginalizzato
- Pugno di ferro contro la povertà: criminalizzare chi occupa
- Lo squilibrio dei poteri e la deriva autoritaria
La rivolta secondo lo Stato: chi obbedisce sopravvive
Anche la revisione del reato di rivolta, apparentemente addolcita su richiesta del Quirinale, continua a suscitare inquietudine. Il testo conserva norme che puniscono la resistenza passiva nei centri per il rimpatrio e nelle carceri, purché interferiscano con “ordini legittimi volti al mantenimento della sicurezza”. Ma chi stabilisce la legittimità dell’ordine? E soprattutto: è proporzionato punire un detenuto che si rifiuta di rientrare in cella come se fosse un pericoloso insurrezionalista? La proporzionalità della pena è un altro principio costituzionale scolpito nella pietra, che qui rischia di essere scalfito con disinvoltura.
Privacy a senso unico: i servizi segreti vogliono sapere tutto
La versione originaria del decreto era talmente entusiasta della sorveglianza da proporre la collaborazione obbligatoria con i servizi segreti da parte di università, aziende ed enti pubblici. Dopo il garbato ma fermo invito del Presidente della Repubblica a ritrovare il senso della misura, il testo è stato parzialmente emendato. Ma resta l’idea di fondo: un sistema in cui la sicurezza è opposta alla privacy come se fossero due nemiche, e non due valori da bilanciare. La Carta, invece, parla chiaro: la riservatezza dei dati personali è un diritto fondamentale. Forzarne la cessione in nome di un’astratta e indefinita esigenza di sicurezza può costituire una violazione grave, non solo in termini giuridici ma anche etici.
L’agente sotto inchiesta? Nessun problema, paga lo Stato
Il decreto prevede che gli agenti di polizia e i militari indagati ricevano fino a 10.000 euro per sostenere le spese legali. Il tutto senza che venga prevista una sospensione automatica dal servizio. La parità davanti alla legge, sancita dall’articolo 3 della Costituzione, qui si incrina. Perché mai un cittadino qualunque dovrebbe pagare di tasca propria la difesa mentre un rappresentante dello Stato, magari accusato di abuso, viene sostenuto economicamente senza nemmeno essere temporaneamente rimosso? Una disparità tanto vistosa da suscitare imbarazzo anche in ambienti istituzionali. La giustizia, dopotutto, dovrebbe apparire imparziale, oltre che esserlo.
Emergenza immaginaria, Parlamento marginalizzato
Non si rileva alcuna situazione di emergenza che giustifichi l’utilizzo del decreto-legge per introdurre queste norme nel nuovo decreto sicurezza. La Costituzione prevede il ricorso al decreto solo in casi straordinari di necessità e urgenza. Qui, la fretta sembra più politica che reale. Un bypass del dibattito parlamentare che mina la legittimità democratica del provvedimento. Un vizio di forma che si somma ai molti dubbi di merito. Ma la forma, in democrazia, è sostanza: scavalcare il Parlamento per introdurre norme repressive è una pratica pericolosa, che chi conosce la storia costituzionale italiana guarda con crescente preoccupazione.
Pugno di ferro contro la povertà: criminalizzare chi occupa
Nel nuovo decreto sicurezza, l’introduzione di un nuovo reato per l’occupazione abusiva di immobili si presenta come una misura di ordine pubblico, ma è in realtà una risposta punitiva a un disagio sociale. La mancanza di politiche abitative adeguate è il vero problema, non chi si rifugia in uno stabile abbandonato. Colpire i più vulnerabili con il codice penale anziché con un piano casa degno di questo nome non è solo un errore politico: è una distorsione costituzionale. La Repubblica, secondo l’articolo 3, dovrebbe rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. Qui, al contrario, li erige a pretesto per un nuovo reato. Un intervento deciso è però corretto quando si tratta di una casa destinata al domicilio di altri, come proprietari o aventi diritto alle case popolari.
Lo squilibrio dei poteri e la deriva autoritaria
Secondo il Forum Disuguaglianze e Diversità, il decreto produce un effetto sistemico: sbilancia i poteri dello Stato, potenziando polizia e servizi segreti a discapito del controllo giurisdizionale. Un’erosione silenziosa ma profonda delle garanzie democratiche. In un ordinamento sano, la divisione dei poteri serve a prevenire abusi. Concentrare prerogative così invasive nelle mani dell’esecutivo e delle sue propaggini armate è un rischio che la Costituzione italiana aveva previsto e cercato di prevenire. Questo provvedimento, invece, sembra voler sfidare quell’equilibrio con una certa spavalderia.