Obesità nel mondo: chi detiene il primato e come se la cava l’Italia

L’obesità è ormai una pandemia silenziosa che racconta molto più del nostro rapporto con il cibo: dai Paesi del Pacifico travolti dai prodotti industriali, ai ricchi Stati del Golfo dominati dal fast food, fino all’Italia, che resiste grazie alla dieta mediterranea ma mostra segni di cedimento. Un viaggio tra culture, abitudini e sistemi alimentari che stanno cambiando il corpo del mondo.

L’obesità nel mondo va interpretata come un segnale: non è soltanto del “peso in più” sulla bilancia, ma la traccia visibile di come è cambiato il nostro rapporto con il cibo, con il vivere quotidiano e con l’ambiente che ci circonda. Lontano dall’essere un semplice fenomeno individuale, riguarda sistemi alimentari, abitudini sociali, politiche sanitarie, infrastrutture pubbliche e perfino l’immaginario collettivo. Quando in un Paese la maggioranza degli adulti supera la soglia che l’Organizzazione Mondiale della Sanità classifica come obesità (BMI ≥ 30), vuol dire che quel modello alimentare ha perso l’equilibrio con i suoi ritmi naturali, con la propria agricoltura e spesso anche con la propria memoria culturale.

L’obesità, quindi, non nasce dal nulla: è figlia della globalizzazione del cibo, dell’urbanizzazione, delle filiere industriali che rendono accessibili a basso costo zuccheri, grassi e sale. Più che un problema estetico o morale, è il sintomo di una disconnessione crescente tra ciò che il corpo chiede e ciò che il mercato offre.

I Paesi con il primato dell’obesità

Nelle isole del Pacifico l’obesità è diventata quasi la norma. Tonga, per esempio, registra circa il 70% della popolazione adulta obesa. Qui la dieta tradizionale, fatta di taro, manioca, pesce e frutti tropicali, è stata sostituita da alimenti importati: carne in scatola, bibite zuccherate, snack confezionati. Il cambiamento è avvenuto in fretta: in una o due generazioni. Si è ridotta l’attività fisica – prima legata alla pesca, all’agricoltura, alla vita quotidiana – ed è comparsa un’idea diversa di cibo, legata al prestigio sociale, al “moderno”, all’abbondanza.

A Nauru la transizione è stata ancora più brutale. Un Paese che negli anni ’80 era ricchissimo grazie alle miniere di fosfati si è ritrovato senza risorse, senza agricoltura e con una dieta basata quasi solo su prodotti importati. Oggi il cibo che riempie i supermercati è lo stesso delle basi militari americane o degli scaffali occidentali: ramen istantanei, pollo fritto surgelato, bibite gassate. Il risultato: più del 60% della popolazione obesa. Situazioni simili si ripetono nelle Cook Islands, a Tuvalu e a Samoa, dove alimenti come il corned beef in scatola, le farine raffinate e le bevande zuccherate sono diventati simboli della modernità.

Ma non è solo una storia di piccole isole. Anche i Paesi del Golfo – come Kuwait, Arabia Saudita, Qatar – mostrano tassi di obesità molto elevati. Qui non è la mancanza di risorse, ma un eccesso improvviso di ricchezza e l’adozione di modelli occidentali a creare lo squilibrio. La vita si svolge in auto, nei centri commerciali climatizzati, i fast food sono parte della quotidianità e l’attività fisica è quasi assente, sia per il clima che per abitudine.

La classifica mondiale

Per comprendere meglio la portata del fenomeno, può essere utile osservare i dati più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e di fonti internazionali come il Global Obesity Observatory e il World Population Review, aggiornati tra il 2022 e il 2025.

Il parametro usato per misurare l’obesità è il BMI (Body Mass Index), cioè l’indice di massa corporea calcolato dividendo il peso in chilogrammi per il quadrato dell’altezza in metri. Secondo la classificazione dell’OMS, una persona adulta è considerata obesa se presenta un BMI pari o superiore a 30. Questo indicatore consente di confrontare in modo uniforme Paesi diversi, indipendentemente da età, sesso o reddito.

Il BMI, pur con i suoi limiti, resta oggi il principale indicatore internazionale per valutare l’obesità e comprendere come cambi la salute delle popolazioni in relazione a dieta, urbanizzazione e stili di vita.

Sulla base di questo metro, ecco la classifica dei 10 Paesi con la percentuale più alta di adulti obesi nel mondo:

  1. American Samoa – 75,6%
  2. Tonga – 70,5%
  3. Nauru – 70,2%
  4. Tokelau – 69,2%
  5. Cook Islands – 68,4%
  6. Niue – 66,5%
  7. Tuvalu – 63,9%
  8. Samoa – 61,2%
  9. Polinesia Francese – 48,4%
  10. Bahamas – 47,6%

E l’Italia, dove si colloca?

L’Italia non è tra i Paesi più colpiti, ma nemmeno immune. Con una percentuale di adulti obesi tra il 17 e il 18%, si colloca nella fascia medio-bassa tra i Paesi ad alto reddito. È ancora lontana dai primati del Pacifico o del Golfo, ma la tendenza non è rassicurante. Il nostro vantaggio è soprattutto storico: la dieta mediterranea, il consumo di legumi, verdure, olio d’oliva e pesce, la convivialità dei pasti. Ma questa struttura culturale si sta lentamente erodendo, soprattutto tra i più giovani.

In molte aree del Sud Italia, dove paradossalmente è nata la dieta mediterranea, aumentano obesità infantile e sovrappeso. I dati mostrano che bambini e adolescenti italiani passano sempre più tempo davanti a schermi, fanno meno sport, mangiano più snack industriali, bevande zuccherate e cibo fast. Questo significa che l’Italia non è ancora in crisi, ma si sta muovendo nella stessa direzione di chi quel limite lo ha già superato.

Leggi anche: Obesità e sovrappeso: qual è la situazione in Italia

La lezione da non ignorare

Osservare i Paesi con i tassi più alti di obesità è come guardare una possibile anticipazione del futuro. Non è soltanto troppo cibo, ma cibo sbagliato nel posto sbagliato, consumato in un corpo che non si muove. È la prova di quanto velocemente un sistema alimentare possa sgretolarsi se perde il legame con la terra, con la biodiversità, con la cultura che lo sostiene.

L’Italia ha ancora un margine, un patrimonio gastronomico e agricolo che molti ci invidiano. Ma nessun patrimonio è eterno se non lo si difende. Continuare a cucinare, scegliere prodotti freschi, sostenere l’agricoltura locale, rimettere il corpo in movimento: non sono nostalgie, sono atti politici. E forse l’unico modo per non diventare, un giorno, un altro caso da classifica.

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