
La scuola italiana si prepara a un radicale cambiamento con la riforma scolastica del 2026. Il nuovo impianto educativo, fortemente voluto dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, mira a rafforzare le radici culturali degli studenti, riservando più spazio alla Bibbia, alla storia italiana e al latino, mentre elimina lo studio della geostoria. L’obiettivo dichiarato è quello di formare cittadini più consapevoli della propria identità nazionale e culturale. Ma siamo sicuri che sottrarre spazio a una visione globale del sapere sia davvero il modo giusto per preparare le nuove generazioni al mondo di domani?
La Bibbia tra cultura e ideologia
Secondo le nuove linee guida, gli studenti delle scuole elementari verranno introdotti allo studio della Bibbia come testo culturale, affiancato alla mitologia greca e all’epica classica. L’intento ufficiale è quello di far conoscere un’opera che ha influenzato profondamente la letteratura, la musica e l’arte occidentale. La decisione ha scatenato polemiche: c’è chi vede in questa scelta un tentativo di ridefinire l’educazione scolastica secondo un’impronta ideologica ben precisa. Perché proprio la Bibbia e non, ad esempio, i testi sacri di altre culture? L’inclusione di questo libro, in un contesto di riduzione delle ore dedicate ad altre materie, sembra rispondere più a una visione identitaria che a un reale interesse per il pluralismo culturale.
Addio geostoria, addio pensiero critico?
Uno degli aspetti più discussi della riforma scolastica 2026 è l’eliminazione della geostoria nelle scuole superiori. Questa materia, che intreccia la storia con la geografia, permette di comprendere le dinamiche globali, le interconnessioni tra i popoli e l’evoluzione dei conflitti e delle migrazioni. La sua cancellazione rischia di appiattire lo studio del passato su una narrazione eurocentrica, impedendo agli studenti di sviluppare una comprensione ampia e critica del mondo. Se il fine ultimo della scuola è quello di formare cittadini consapevoli, ha davvero senso privarli di strumenti essenziali per interpretare la complessità contemporanea?
Il latino: strumento formativo o nostalgia accademica?
Il ritorno del latino nelle scuole medie, seppur come materia opzionale, viene presentato come un rafforzamento della preparazione linguistica degli studenti. Indubbiamente, lo studio del latino può affinare il pensiero logico e la padronanza della lingua italiana, ma la sua reintroduzione pone alcuni interrogativi. In un’epoca in cui la padronanza delle lingue straniere e delle competenze digitali è sempre più essenziale, era davvero questa la priorità? Potenziare lo studio delle lingue moderne non sarebbe stato un investimento più utile per garantire ai ragazzi migliori opportunità nel mercato del lavoro?
Quale scuola per quale società?
Al di là delle polemiche, la vera domanda che emerge da questa riforma scolastica è quale modello di società vogliamo costruire. Se la scuola deve preparare i giovani al futuro, dovrebbe dotarli degli strumenti per comprendere la complessità del presente, non imprigionarli in una visione del mondo filtrata dal passato. Privilegiare la Bibbia, ridurre la geostoria e riportare il latino in auge sembra più un’operazione nostalgica che una scelta pedagogica strategica. La scuola ha il compito di formare cittadini consapevoli, critici e aperti al mondo: è davvero questo il percorso migliore per riuscirci?