
A San Francisco, nel Mission District, c’era un gatto considerato non solo una mascotte di quartiere, ma una piccola istituzione cittadina. Si chiamava KitKat, viveva tra le vetrine di Randa’s Market e i bar della zona, attraversando il marciapiede come un sindaco non eletto ma amatissimo. Tutti lo conoscevano, tutti lo salutavano, era uno di quegli animali che diventano parte della vita collettiva di una città: non “di qualcuno”, ma “di tutti”.
Un volto riconoscibile, un nodo emotivo in un tessuto urbano che cambia rapidamente, e dove spesso non c’è più spazio per le storie senza valore economico. KitKat era una di quelle storie, ma poi è arrivato un robotaxi e KitKat ora non c’è più.
L’incidente con il robotaxi

Secondo la versione ufficiale, una vettura Waymo stava ripartendo dopo aver caricato un passeggero quando il gatto sarebbe sbucato improvvisamente sotto il veicolo. I testimoni, però, raccontano una scena diversa: KitKat era visibile, fermo davanti all’auto, poi avrebbe camminato sotto il muso del taxi autonomo proprio mentre questo iniziava a muoversi.
In ogni caso, la tecnologia che dovrebbe prevenire incidenti non ha potuto (o saputo) fare nulla. KitKat è stato soccorso e portato in una clinica veterinaria, ma non ce l’ha fatta.
Il giorno dopo, davanti a Randa’s Market è comparso un piccolo altare urbano fatto di candele, messaggi, fiori, ciotole di cibo lasciate come offerte. Non era solo dolore per un animale: era un lutto collettivo.
Quando muore una creatura simbolica, soprattutto per un quartiere che vive la strada come comunità, è come se venisse meno un pezzo di identità condivisa. Ma questa volta il dolore è diventato anche politico. Jackie Fielder, supervisora locale, ha annunciato una proposta di legge per dare ai distretti il potere di decidere se e come i robotaxi possano circolare. Al momento, secondo lei, i residenti non hanno voce in capitolo: la sperimentazione tecnologica avanza più velocemente delle tutele.
Una tecnologia che nessuno ha chiesto
Il caso KitKat ha riacceso un dibattito che in città covava da mesi: chi ha chiesto l’arrivo massiccio dei robotaxi? Chi ne beneficia davvero? E chi paga il conto quando qualcosa va storto?
A oggi, i taxi autonomi operano come una sorta di “esperimento live” sulle strade urbane. Ma un veicolo senza conducente solleva interrogativi nuovi: se un guidatore umano investe qualcuno può essere identificato, chiamato a rispondere, può fermarsi, assumersi la responsabilità. Un’auto autonoma invece no. E al posto dell’empatia resta un log di dati e una dichiarazione stampa.
La morte di KitKat, nella sua terribile semplicità, mette in crisi l’idea che la tecnologia sia neutra e inevitabile. Non si tratta solo di sicurezza stradale: si tratta di chi definisce le priorità della città.
La città che deve scegliere che città essere

A livello narrativo, il robotaxi diventa il simbolo di una “smart city” orientata più alla tecnologia che alle relazioni. Una città che corre verso l’automazione totale rischia di dimenticare che un tessuto urbano sano non si misura solo in numeri, in app, in riduzioni dei tempi di tragitto, ma nella vita vissuta: quella dei pedoni, dei negozianti, delle persone che vivono la strada e sì, anche dei gatti che la abitano.
Se la Mission riuscirà ad ottenere più potere locale sulle sperimentazioni tecnologiche, potrebbe segnare un precedente importante: le città non devono solo subire l’innovazione, possono negoziarla, modularla, limitarla o persino rifiutarla.
KitKat è diventato così, suo malgrado, un simbolo di qualcosa di più grande: il diritto dei cittadini a non essere spettatori passivi dentro una trasformazione urbana decisa da altri. In fondo, una smart city che perde di vista i suoi umani e i suoi animali non è davvero smart.