
Se getti nel bidone della raccolta differenziata un oggetto e ti senti subito fiero di te, esiste una possibilità concreta che tu stia cadendo in una delle più subdole trappole dell’ecologia domestica: il wishcycling. Termine che sa di wishful thinking, ovvero quella tendenza tutta umana a confondere i desideri con la realtà, applicata però all’immondizia. In parole povere, è l’atto di inserire nei contenitori della differenziata materiali che non vi dovrebbero finire, nella speranza – o nella superstizione – che il magico mondo del riciclo li gestisca comunque. Peccato che no, non funzioni così. E nemmeno si avvicini.
Il wishcycling è, di fatto, l’equivalente domestico del mettere sotto il tappeto la polvere prima che arrivino gli ospiti, solo che il tappeto, in questo caso, è l’intera filiera di raccolta e riciclo, che già di per sé ha non pochi problemi strutturali. Se pensi che l’importante sia “almeno provarci”, preparati ad accettare che, in realtà, il danno ambientale rischia di essere maggiore di quello che avresti fatto gettando il rifiuto nell’indifferenziato. Eppure, nonostante le campagne informative e le infinite guide alla raccolta, il wishcycling prospera, alimentato da un mix letale di senso di colpa, ignoranza e un pizzico di presunzione eco-friendly.
Cos’è davvero il wishcycling
Il termine wishcycling nasce negli Stati Uniti, ed è ormai di uso comune nei paesi anglosassoni, benché da noi resti ancora uno di quegli anglicismi che si infilano di soppiatto nei dibattiti ecologisti, tra una bio-plastica e una carbon footprint. La definizione è semplice, quasi lapidaria: il wishcycling consiste nell’inserire materiali non riciclabili nei flussi di raccolta differenziata, sperando che qualcuno, da qualche parte, li ricicli lo stesso. Questo comportamento, che potrebbe sembrare inoffensivo o addirittura virtuoso, rappresenta invece una criticità enorme per il sistema di trattamento dei rifiuti.
In Italia, come altrove, la qualità della raccolta differenziata è tanto importante quanto la quantità. Non basta, insomma, differenziare tanto: bisogna farlo bene. I materiali sbagliati finiscono per contaminare interi lotti di raccolta, rendendoli inutilizzabili o obbligando gli impianti a operazioni di separazione più costose, energivore e spesso inefficaci. Il risultato? Rifiuti che avrebbero potuto essere riciclati finiscono in discarica o, peggio, negli inceneritori. Ironico, no? Cercavi di salvare il pianeta, e l’hai solo messo sotto torchio.
Le cause (non troppo nobili) del wishcycling
Se il wishcycling fosse solo figlio dell’ignoranza, sarebbe un problema tutto sommato risolvibile con qualche campagna informativa ben fatta e un paio di infografiche. In realtà, le motivazioni sono più intricate e, diciamolo, meno commoventi. Alla base c’è sì la mancanza di informazioni precise – basti pensare alle etichette spesso ambigue dei prodotti – ma anche una certa pigrizia mentale, una volontà di liberarsi velocemente dei dubbi affidandosi a un ottimismo pigro: “meglio metterlo nella plastica, al massimo ci penseranno loro”.
Non è raro che dietro il wishcycling si nasconda pure una sorta di auto-assoluzione preventiva. Inserire nella carta la confezione sporca della pizza o gettare nel vetro il bicchiere di cristallo rovinato ci fa sentire meno complici di un sistema di consumo insostenibile. È il classico “intanto lo metto lì, poi si vedrà”. Peccato che il “si vedrà” abbia quasi sempre come epilogo lo smaltimento peggiore possibile, con buona pace delle buone intenzioni.
Gli effetti concreti: danni nascosti (ma neanche troppo)
Al contrario di quanto si possa pensare, le conseguenze del wishcycling non si limitano a qualche fastidio per gli addetti alla raccolta. Il problema è strutturale e tangibile. Secondo diversi report europei, l’inquinamento dei flussi di materiali differenziati con oggetti estranei incide sensibilmente sull’efficienza degli impianti di riciclo, riducendone la produttività fino al 25%. Significa che un quarto dei rifiuti raccolti “correttamente” finisce per essere comunque scartato e smaltito in modo tradizionale.
Il wishcycling alimenta un ciclo vizioso. La presenza di materiali contaminanti obbliga i consorzi a spendere più risorse – economiche ed energetiche – per tentare di salvare ciò che può essere salvato, rendendo il processo di riciclo meno sostenibile e più costoso. Nel frattempo, chi ha gettato la vecchia padella nella raccolta della plastica si sente comunque in pace con la coscienza, senza immaginare che il suo gesto ha innescato una piccola catastrofe logistica e ambientale.
Come evitarlo (senza diventare eco-talebani)
La soluzione, sorprendentemente, non richiede né sacrifici estremi né il ritorno alla vita bucolica con secchi e carretti. Si tratta di un mix tra informazione e onestà. Sapere che la carta sporca di cibo, la plastica compostabile non certificata o gli oggetti composti da più materiali non separabili non vanno differenziati è il primo passo. Accettare che a volte il rifiuto migliore è quello che finisce nell’indifferenziato è il secondo, più doloroso, ma necessario.
Non si tratta di arrendersi, ma di diventare cittadini più consapevoli, capaci di fare i conti con i limiti reali del sistema. Differenziare bene, piuttosto che troppo, è il mantra che dovremmo tatuarci sulla sporta della spesa. E, sia chiaro, nessuno ti sta chiedendo di diventare un monaco del compost, ma solo di mettere da parte quell’ingenuità ambientalista che, più che salvare il pianeta, rischia di incasinarlo ancora di più.