Workslop: quando l’IA produce lavoro che sembra buono ma non serve a nulla

Dietro l’apparente efficienza dell’intelligenza artificiale si nasconde il workslop: contenuti che imitano il linguaggio del lavoro ma ne cancellano il valore, generando sprechi, stress e una progressiva erosione della produttività reale.

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    Ti arriva una mail lunga, elegante, perfettamente scritta. Il tono è professionale, la forma impeccabile, le parole scorrono fluide. Ma alla seconda lettura ti accorgi che non dice niente: nessun dato, nessuna decisione, nessuna utilità. Solo un insieme di frasi che sembrano intelligenti ma non portano da nessuna parte. È il nuovo rumore del lavoro digitale, il workslop: la produttività vuota generata dall’intelligenza artificiale.

    Il termine è stato introdotto da Jeff Hancock, docente di Stanford, che già nel 2022, poco dopo il debutto pubblico di ChatGPT, notò un fenomeno curioso tra i suoi studenti. Gli elaborati sembravano ben scritti ma, a un’analisi più attenta, erano vuoti, ridondanti e privi di sostanza. Se ne deduce piuttosto chiaramente che l’intelligenza artificiale è bravissima nella sua attività di imitazione del linguaggio del lavoro, ma non sempre (anzi quasi mai) riesce a generare contenuti e pensieri originali. Quelli sono ancora totalmente umani.

    Eppure, ricerche recenti condotte dal team di BetterUp Labs insieme al Social Media Lab di Stanford mostrano come questa tendenza si stia diffondendo rapidamente. Molti testi, presentazioni e report prodotti con strumenti generativi sembrano curati, ma non contengono un contributo reale. Questo perché non possono semplicemente essere copiati e incollati. Sono prodotti che richiedono necessariamente una revisione: devono essere ripresi, reinterpretati, corretti, riscritti.

    Ma che succede se il testo così come GPT l’ha fatto arriva al destinatario finale? Succede che tanti lavoratori si trovano a fare il doppio della fatica, spendendo le ore risparmiate dal collega per ripulire o addirittura rifare i contenuti generati (male) dall’IA. Tradotti in stipendi e produttività, questi minuti sprecati diventano costi nascosti che, su larga scala, raggiungono cifre milionarie. E oltre al danno economico c’è anche la beffa: chi riceve questi testi infatti prova irritazione, confusione, talvolta persino fastidio personale.

    Alla base del workslop

    Il workslop è figlio diretto dell’uso intensivo dell’intelligenza artificiale, ma anche di una cultura che confonde la quantità con la produttività. Nelle aziende si moltiplicano le richieste di risultati immediati: più report, più mail, più contenuti. L’IA appare come una scorciatoia perfetta, in grado di produrre in pochi secondi ciò che un essere umano scriverebbe in ore. La produzione cresce, sì,  ma il valore si diluisce.

    C’è anche un elemento umano. Delegare all’IA la parte creativa del lavoro offre la sensazione di efficienza, ma in realtà sposta l’onere del pensiero su qualcun altro (o meglio qualcos’altro). Il contenuto generato, però, rimanda il problema: chi riceve deve capire, filtrare, correggere, e alla fine fare ciò che l’IA non ha saputo fare.

    A tutto questo si somma la mancanza di regole e competenze. Senza una formazione adeguata, chi utilizza l’IA non sa come guidarla né come verificarne i risultati. Lo strumento viene trattato come un sostituto dell’intelletto, non come un supporto. Secondo studi condotti su scala aziendale, oltre il 90% delle organizzazioni che hanno introdotto sistemi di intelligenza artificiale non ha ancora registrato benefici misurabili. L’adozione cresce, ma l’impatto reale resta minimo: i processi diventano più veloci, ma non più intelligenti.

    Gli effetti sul lavoro

    Questo fenomeno non intacca solo la produttività, ma cambia anche il nostro rapporto con il pensiero. Quando ogni frase sembra già pronta, il linguaggio perde la sua funzione di esplorazione e diventa un semplice strumento di riempimento. Si scrive non per dire qualcosa, ma per colmare uno spazio.

    Nei team, questo meccanismo produce un effetto silenzioso: il linguaggio si appiattisce, le differenze di voce si confondono, la comunicazione smette di generare confronto. Tutto suona corretto, ma perde autenticità.  Sul piano individuale, il prezzo è anche più insidioso. Rivedere testi che non hanno direzione significa lavorare in assenza di scopo. La mente, privata di sfida e significato, si affatica più in fretta.

    La tecnologia che prometteva di liberarci dal lavoro meccanico, in pratica, lo ha reso più pesante e invisibile. Ora dobbiamo sforzarci di pensare dopo che qualcun altro — o qualcosa — ha già pensato per noi.

    Come invertire la rotta

    Riconoscere il workslop è il primo passo per evitarlo. Non si tratta di rinnegare l’intelligenza artificiale, ma di usarla in modo consapevole. Gli esperti concordano su un punto: il problema non è lo strumento, ma la mancanza di cultura intorno al suo utilizzo. Servono linee guida chiare su quando e come impiegare i sistemi generativi, e una regola semplice ma essenziale — dichiarare apertamente se un contenuto è stato prodotto con l’IA. Solo così chi lo riceve può valutarlo con il giusto grado di attenzione e contestualizzarlo.

    La formazione diventa cruciale: imparare a scrivere prompt efficaci, a verificare dati, a integrare l’output dell’IA con competenze umane. Senza questa consapevolezza, la tecnologia non potenzia il pensiero, lo deresponsabilizza.

    Essere lavoratori migliori oggi significa saper distinguere ciò che sembra utile da ciò che lo è davvero. Significa fermarsi, leggere, pensare, editare. L’IA può scrivere per noi, ma non può comprendere al nostro posto. E forse, in un’epoca che ci spinge a non pensare, la comprensione è l’unico atto davvero rivoluzionario.

    tags: AI lavoro

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