
Nell’immaginario collettivo, la pesca è spesso associata alla quiete dei laghi alpini o alla vastità dell’oceano, a uomini e donne armati di pazienza più che di ami. In tempi recenti, però, si è affermata una pratica che promette di coniugare passione sportiva e rispetto per la vita animale: il cosiddetto catch and release, ovvero cattura e rilascio. In questa formula apparentemente innocua, il pesce viene pescato e poi liberato, vivo, nel suo habitat naturale. Un gesto che, almeno in apparenza, sembra eticamente più sostenibile rispetto alla pesca tradizionale. Ma è davvero così? Dietro l’immagine pacificata del pescatore che restituisce alla natura ciò che ha prelevato, si celano interrogativi più profondi: quanto soffre un pesce durante questo processo? Possiamo parlare di pratica cruelty-free? Per rispondere, occorre guardare da vicino cosa succede, esattamente, nel momento in cui si pesca per poi lasciar andare.
Che cos’è il catch and release
Il catch and release nasce come pratica all’interno della pesca sportiva, in particolare in ambienti dove la conservazione delle popolazioni ittiche è cruciale. L’idea è semplice: il pescatore, una volta catturato un esemplare, non lo trattiene, ma lo rilascia subito dopo averlo eventualmente fotografato o misurato. Questa modalità è spesso regolamentata da leggi specifiche, specialmente in aree protette o in presenza di specie a rischio. Non si tratta, dunque, di un capriccio, ma di una strategia di conservazione che intende mitigare l’impatto umano sugli ecosistemi acquatici. Le origini di questa pratica risalgono agli Stati Uniti degli anni ’50, per poi diffondersi in Europa e altrove, spesso accompagnata da campagne educative che ne promuovono i valori ecologici.
Come si pratica la pesca catch and release
Pescare con l’intento di non nuocere è più complicato di quanto sembri. Il successo del catch and release, in termini di sopravvivenza dei pesci, dipende da numerose variabili: il tipo di amo usato (preferibilmente senza ardiglione), la tecnica di slamatura, il tempo di esposizione all’aria, la manipolazione dell’animale. Un pesce che resta troppo a lungo fuori dall’acqua, che viene toccato con mani asciutte o che subisce danni alle branchie, può riportare ferite gravi, spesso mortali. Le linee guida più aggiornate consigliano l’uso di attrezzi delicati, l’idratazione continua durante la manipolazione e un rilascio rapido, idealmente entro pochi secondi. In alcuni casi, vengono utilizzate reti in gomma e disinfettanti per minimizzare lo stress e prevenire infezioni. Il gesto, dunque, non si esaurisce nel rimettere un pesce in acqua: richiede perizia, attenzione e una consapevolezza che va ben oltre l’hobby domenicale.
Il paradosso etico del non uccidere
A prima vista, la pesca catch and release sembra la perfetta soluzione per chi ama pescare ma non vuole uccidere. In realtà, è qui che iniziano i dilemmi. Molti studi hanno evidenziato come i pesci siano in grado di provare dolore e stress: sebbene il loro sistema nervoso sia diverso da quello dei mammiferi, non è affatto privo di sensibilità. L’amo che penetra nella bocca, la lotta per liberarsi, la perdita temporanea dell’equilibrio in acqua, tutto contribuisce a un’esperienza che, almeno dal punto di vista etologico, può essere definita traumatica. E allora la domanda si impone: è lecito infliggere sofferenza a un essere vivente solo per il proprio divertimento, anche se poi lo si lascia andare? Alcuni etologi e filosofi della bioetica parlano di “utilitarismo ricreativo”, in cui il piacere dell’uomo giustifica un danno, seppur non letale, all’animale. Una forma di antropocentrismo mascherato da buona coscienza.
Riflessione: il rispetto è un fatto di coerenza?
Chi sceglie il catch and release spesso lo fa in nome del rispetto per la vita animale. È una motivazione nobile, ma rischia di cadere in contraddizione se non si accompagna a una piena consapevolezza dell’effetto reale della propria azione. Il problema non è solo il danno fisico, ma l’intero impianto simbolico che sottende questa pratica: l’idea che si possa giocare con la vita di un altro essere senziente, pur senza ucciderlo. Forse non è la morte l’unica misura dell’etica. Forse anche la sofferenza, la paura, lo stress meritano attenzione. Detto ciò, sarebbe ingenuo ridurre la questione a un giudizio binario: giusto o sbagliato. Il catch and release può avere un senso all’interno di politiche di conservazione, o quando praticato con rigore scientifico. Ma resta una pratica ambivalente, che interroga chi la compie, chiedendogli non solo tecnica, ma anche responsabilità morale. Come spesso accade quando si tratta di animali, non basta “non uccidere” per sentirsi innocenti.