Se domani non torno, distruggi tutto: Ilaria, Sara e le altre voci interrotte in un Paese che minimizza i femminicidi

da | Apr 10, 2025 | news | 0 commenti

Femminicidi, troppo frequenti. Quando Ilaria Sula è stata ritrovata chiusa in una valigia, ciò che ha attratto l’attenzione di alcuni – soprattutto sui social – non è stato tanto l’orrore del gesto, quanto un messaggio inviato dalla ragazza a un ammiratore. Come se l’ultima conversazione virtuale avesse un potere esplicativo sufficiente a giustificare un omicidio. Lo stesso meccanismo si è attivato con Sara Campanella: una frase d’orgoglio scritta sui social, “Mi amo troppo per stare con chiunque“, è stata ripresa con toni ambigui, quasi a suggerire che l’autodeterminazione femminile fosse una sfida e, in ultima analisi, una provocazione.

A rendere il tutto ancora più tossico è il linguaggio a volte romanzato che trasforma l’assassino in un amante disperato. Mark Samson ha detto “La amavo”, e nei commenti abbiamo letto questa frase spesso sorvolando sulla natura ossessiva, manipolativa e violenta di quell’amore. Si preferisce la favola gotica al fatto brutale, la narrazione sentimentale al riconoscimento della premeditazione. A completare il quadro, la conferenza stampa sul caso Campanella, in cui le autorità hanno sottolineato che LEI, “non aveva denunciato”.

Come se la mancata denuncia individuale potesse cancellare la responsabilità collettiva di un sistema istituzionale che troppo spesso non ascolta, non crede, non agisce.

Cultura del rifiuto: perché la società assolve i carnefici

Stefano Argentino e Mark Samson, gli autori di questi delitti, sono stati descritti da amici e conoscenti come “ragazzi tranquilli”, “non violenti”, “in difficoltà”. Questo ritratto non è casuale: riflette una tendenza culturale a pensare che la violenza maschile sia frutto di un’eccezione emotiva e non di una struttura di potere. Il rifiuto femminile viene percepito come un attacco all’identità, e la risposta violenta come una perdita di controllo, mai come un atto deliberato.

Nei forum online, focolai di misoginia sistemica, i commenti oscillano tra la nostalgia del “maschio tradizionale” e l’accusa all’emancipazione femminile di “essere andata troppo oltre”. Non si tratta di devianze isolate ma di un disegno culturale che associa il dominio maschile al concetto stesso di normalità. In questo contesto, l’omicidio non è il punto di rottura, ma la tragica conferma di una cultura della proprietà affettiva, in cui dire “no” equivale a disobbedire a un ordine implicito.

L’eco tossica dei social media

La violenza non si esaurisce nel gesto: continua, muta forma, si replica. Sui social, la polarizzazione è immediata. L’hashtag #NotAllMen risorge come un controcanto reazionario ogni volta che il movimento femminista prova a fare luce sulla struttura della violenza. È il modo perfetto per spostare l’attenzione dal problema reale al narcisismo ferito di chi si sente accusato per osmosi.

Parallelamente, si assiste a una banalizzazione performativa: post indignati, appelli generici al “pensiero per le madri” e nessuna riflessione sulla cultura patriarcale. Il dolore viene assorbito dalla retorica del lutto collettivo, ma il sistema resta intatto. Nei gruppi incel e misogini, i due casi sono stati elevati a “dimostrazioni” del caos che l’emancipazione femminile porterebbe con sé. La vittima viene degradata a simbolo di una minaccia ideologica, e il carnefice riabilitato come reazione difensiva a un mondo che non riconosce più il suo status.

Non mi soffermerò a elencare frasi a corredo di questi e altri femminicidi come: “a furia di non aprire le gambe queste sono le conseguenze”, “li avevano esasperati” o ancora “non si va all’università per fare amicizia, vedi come si finisce poi” – e le centinaia di migliaia di commenti simili che infestano il dibattito pubblico. Davanti a simili aberrazioni, le istituzioni non dovrebbero limitarsi all’indignazione: occorre un intervento sistemico, una task force non per censurare, ma per decostruire e correggere alla radice queste derive grottesche.

Manca la volontà di combattere i femminicidi

Nonostante i proclami e le promesse ministeriali, l’educazione affettiva resta un miraggio. I licei frequentati da Ilaria e Sara non avevano alcun programma obbligatorio che affrontasse le dinamiche della violenza di genere, della gestione del rifiuto, del consenso. Né esiste un database nazionale per monitorare comportamenti predatori o allarmi ricorrenti. I centri antiviolenza, spesso citati come baluardo contro la violenza, sono sistematicamente sottofinanziati, lasciati a reggere un’intera infrastruttura di emergenza con risorse limitate. Ogni femminicidio accende per un attimo la luce, ma il buio amministrativo ricade subito su chi sopravvive.

Un sistema che uccide due volte

Ilaria Sula e Sara Campanella non sono morte per caso. Sono state uccise in un contesto in cui il rifiuto non viene tollerato, l’autonomia femminile è vista come sfida, la denuncia come un optional, la giustizia come un esercizio retorico. La giovane età delle vittime e dei carnefici dimostra che il problema non appartiene al passato, ma si rinnova nelle generazioni future. Finché la scuola non formerà, la giustizia non proteggerà e i media non racconteranno con onestà, la società continuerà a minimizzare i femminicidi. E a prepararne di nuovi, ogni giorno. E come dice la poetessa Cristina Torre Cáceres:

Mamma, non piangere le mie ceneri. Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.

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