La prima volta che ho letto Ghiaccio-Nove (Cat’s Cradle, 1963) ho pensato che qualcuno mi stesse prendendo in giro. Era troppo assurdo, troppo lucido, troppo perfetto nella sua follia. Poi ho capito: ero finita nelle mani di Kurt Vonnegut, e da lì non si esce più. Leggere questo libro è come sorridere mentre precipiti: ti rendi conto troppo tardi che non stavi ridendo, stavi capendo. Vonnegut non scrive romanzi. Costruisce trappole morali mascherate da satira. In Ghiaccio-Nove, l’apocalisse non arriva per colpa di un meteorite o di un’invasione aliena, ma per via dell’idiozia strutturale dell’essere umano. La vera arma di distruzione di massa non è la scienza, è il fatto che ce la mettiamo in tasca senza sapere cosa farne. Anzi: spesso ce la mettiamo in tasca proprio perché non sappiamo cosa farne. E da lì, il disastro.
Il disastro come metafora
Il ghiaccio-nove è una forma modificata dell’acqua, capace di congelare istantaneamente qualsiasi liquido con cui entra in contatto. È il McGuffin perfetto: non ha bisogno di essere spiegato troppo. Esiste, è stato inventato da uno scienziato militare disinteressato, ed è finito nelle mani sbagliate. O forse nelle mani giuste, se vogliamo davvero vedere quanto siamo stupidi quando crediamo di poter gestire ciò che non comprendiamo.
La trama, più o meno
Il narratore è un aspirante biografo che vuole scrivere un libro su ciò che facevano gli scienziati il giorno in cui fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Seguendo le tracce del dottor Felix Hoenikker – mente brillante e sociopatica, considerato uno dei padri della bomba – il protagonista si ritrova invischiato in un viaggio grottesco e visionario, che lo porta fino all’isola caraibica di San Lorenzo. Qui incrocia una dittatura da operetta, una religione completamente inventata (e dichiaratamente falsa), e soprattutto i tre figli di Hoenikker, ognuno portatore di un frammento dell’eredità più pericolosa mai concepita: il ghiaccio-nove.
La storia si muove tra satira politica, filosofia da cocktail e assurdità scientifica, con un ritmo che sembra casuale ma è chirurgico. Ogni tappa del viaggio è una messa a nudo del nostro desiderio di credere in qualcosa – qualunque cosa – purché ci distragga dalla realtà. La trama in sé conta fino a un certo punto. Quello che resta addosso è l’abisso raccontato come se fosse una barzelletta ben costruita.
Nessun eroe, nessun conforto
Io sono una fan di Vonnegut, quindi ho cercato redenzione, o almeno un accenno di speranza, da qualche parte nel libro. Non l’ho trovata. Ho trovato invece una messa in scena spietata del fallimento morale collettivo. Ogni personaggio – e sono tanti, e grotteschi, e geniali – rappresenta un pezzetto della macchina rotta che chiamiamo società. Politici corrotti, religioni inventate, scienziati irresponsabili, giornalisti opportunisti, e una costante: l’assoluta, meravigliosa assenza di eroi.
Il ghigno di chi ha capito troppo
Vonnegut scrive come se stesse cercando di spiegarti qualcosa mentre sta già ridendo della tua espressione. È pacifista, ma non predica mai. Ti mostra solo il meccanismo, lo accende, e ti chiede: ora che lo vedi funzionare, che intenzioni hai? Lo spegni, o ci balli intorno?
Ghiaccio-Nove è anche questo: un esercizio crudele di specchio. Non salva nessuno, perché forse non c’è più niente da salvare. Ma non è cinico: è lucidamente umano. Ti dice che finiremo male, sì, ma con stile. Con una risata secca in gola. Con un Dio che non c’è, un’etica che si dissolve e una fisica che vince sull’anima.
Manuale per capire il secolo
Anni fa, forse una trentina, lo lessi in una notte. Non per fame, ma per necessità. Dovevo arrivare in fondo per sapere se davvero tutto andava in pezzi, se c’era almeno un angolo di consolazione. Non c’era. Solo la bellezza della catastrofe raccontata con intelligenza, la precisione spietata di un autore che non ha bisogno di commuoverti per lasciarti in silenzio.
Ghiaccio-Nove non è un romanzo. È un manuale di istruzioni per capire il secolo scorso. E forse anche quello che stiamo vivendo ora, solo più idiota e più ipertecnologico. Il ghiaccio si sta già formando. Siamo tutti lì a guardarlo, col dito sul bottone, sperando che qualcun altro sia più saggio.
Nessuno lo è. E Vonnegut lo sapeva.
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