Gli allevamenti intensivi non esistono

Gli allevamenti intensivi non hanno una definizione legale: questo ha conseguenze dirette sulla trasparenza e favorisce pratiche dannose per animali, ambiente e salute.

Gli allevamenti intensivi non esistono - immagine di copertina

    Quando si parla di allevamenti intensivi pensiamo istantaneamente ad animali ammassati, maltrattati e in pessime condizioni di vita. Ma la realtà dei fatti è che gli allevamenti intensivi non esistono.

    Non siamo diventati matti, vogliamo semplicemente porre l’attenzione su un piccolo ma significativo dettaglio a livello comunicativo e legislativo, dietro al quale si nasconde un’enorme zona buia della nostra società.

    Non esiste infatti una definizione legale e riconosciuta di allevamento intensivo, perché qualora esistesse ne conseguirebbe la possibilità di etichettare gli allevamenti e i loro prodotti come intensivi (o non intensivi, per quei pochi allevamenti virtuosi rimasti).

    Qualora al supermercato trovassimo la carne etichettata, o addirittura divisa in due compartimenti diversi, le nostre scelte d’acquisto risulterebbero molto più semplici e l’industria intensiva della carne ne avrebbe un enorme danno. Se determinati alimenti fossero bollati come intensivi, e quindi derivanti da situazioni in cui gli animali sono ammassati, mantenuti in condizioni di vita pessime e cresciuti al solo fine di finire nei banchi frigo, allora certamente non saremo così felici di comprarla.

    Ad oggi le informazioni a disposizione per comprendere in maniera approfondita come funziona l’industria della carne sono a disposizione di tutti, ma il processo che condiziona le nostre abitudini d’acquisto non è veramente cominciato per tutti. Quando siamo al supermercato non ci pensiamo, o fingiamo di dimenticare, e compriamo: sulla carne dei banchi frigo è indicata la provenienza, ma spesso è scritta in piccolo, o c’è un indirizzo che andrebbe cercato e analizzato per comprendere se si tratta di un allevamento intensivo o meno.

    I numeri

    Nel dubbio, sappiate che è molto probabile che la carne che state maneggiando provenga da un allevamento intensivo.

    Anche in Italia, dove ci vantiamo col mondo intero delle nostre eccellenze gastronomiche, quando si parla di carne e suoi derivati di eccellenza ce n’è ben poca.

    Il 90% dei polli che finiscono sulle nostre tavole deriva da allevamenti intensivi. Il 95% dei maiali che consumiamo ha vissuto la propria intera esistenza in un capannone allevato intensivamente.

    Salsicce, salami, mortadella, prosciutti, tortellini, bistecche, costine, fettine panate, etc., sono in nove casi su dieci derivanti da un allevamento intensivo.

    Ciò significa che stiamo mangiando la carne di un animale che dal momento in cui è nato al momento in cui è morto è stato maltrattato. Ma se la leva emotiva non è sufficiente, concentriamoci per un momento sulla qualità di questa carne: animali che vivono in pessime condizioni di igiene, mangimi di scarsa qualità creati per farli crescere il più possibile, ormoni da stress e paura rilasciati per tutta l’esistenza della bestia.

    Siamo ciò che mangiamo, beh: buon appetito.

    Le conseguenze

    Al di là delle conseguenze sul nostro fisico e sulla nostra salute, che sono ovviamente negative dato che stiamo mangiando una carne che è al limite del tossico, gli allevamenti intensivi hanno un impatto ambientale enorme.

    Si tratta infatti di uno dei settori più inquinanti a livello mondiale (ve lo abbiamo già raccontato in diverse occasioni), oltre ai danni diretti, quindi emissioni derivanti dal mantenimento di queste strutture, vanno contati anche i danni indiretti. Ad esempio, la necessità di coltivare soia, che viene dedicata nella quasi totalità ai mangimi animali degli allevamenti intensivi, sta contribuendo alla deforestazione di varie aree del nostro Pianeta, con conseguenze ci colpiscono direttamente (vedi aumento delle temperature, cambiamenti climatici, etc.).

    La soluzione

    Sono talmente tante le evidenze sull’industria della carne che ad oggi non prendere una posizione significa non solo essere nemici degli animali, ma anche degli esseri umani.

    Non si parla di convertire tutti a un regime alimentare vegetariano, ma di smettere di far finta di niente: anche se non ammassiamo decine di migliaia di polli in un capannone avremo comunque la possibilità di gustarci delle fantastiche fettine panate; anche se non costringiamo un maiale a vivere nelle proprie feci per tutta la sua vita potremmo comunque mettere sulle nostre tavole degli ottimi prosciutti. Boicottare gli allevamenti intensivi non significa non mangiare carne, significa fare attenzione a ciò che si mangia e acquistare prodotti di cui conosciamo la provenienza, favorendo quei contesti che si impegnano a produrre cibo di qualità e che, di conseguenza, non ci fa male.

    Questo è il primo e fondamentale passo per migliorare la nostra salute, la qualità di vita degli animali e le condizioni del nostro Pianeta. Un cambio di direzione di cui possiamo beneficiare tutti, la cui unica conseguenza è un minor guadagno di multinazionali già miliardarie.

    Se poi volete fare un secondo passo, la petizione EUMANS per regolamentare a livello europeo gli allevamenti intensivi è sicuramente una buona scelta: qui i dettagli.

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