(e perché il verde quasi non esiste)
La Commissione Europea l’ha affermato chiaramente: l’obiettivo è quello di arrivare a 10 tonnellate di idrogeno verde prodotte sul territorio comunitario entro il 2030. Per fare questo si punta a introdurre un fondo dedicato da tre miliardi di euro. E di certo c’è già del movimento, con l’UE che vanta il 28% dei brevetti per le tecnologie per l’idrogeno messe a punto tra il 2011 e il 2020. Allo stesso modo, stanno crescendo i progetti. Pensiamo per esempio alla volontà di costruire un viadotto sottomarino che dovrebbe portare idrogeno verde dalla Spagna alla Francia, da attivare entro la fine del decennio. Nemmeno fuori dall’Unione se ne stanno a guardare: negli Stati Uniti si sta iniziando a mescolare l’idrogeno con il gas fossile, mentre la compagnia norvegese Equinor si sta attrezzando per costruire un impianto a idrogeno blu in Gran Bretagna. E ancora, in Cina si punta ad avere 50.000 veicoli a idrogeno entro il 2025.
Fin qui si sono citati solamente l’idrogeno verde e il cugino blu. Il problema però è che attualmente solo lo 0,04% dell’idrogeno usato a livello mondiale è verde, e che l’idrogeno blu non raggiunge nemmeno l’1%. Per capire la portata di questi dati è necessario ripassare velocemente il significato di queste etichette, per comprendere cosa si nasconde sotto queste indicazioni cromatiche.
Il 99% dell’idrogeno utilizzato a livello mondiale è di origine fossile, e come tale viene riconosciuto con due etichette: da una parte c’è l’idrogeno grigio, dall’altra c’è l’idrogeno marrone (chiamato anche idrogeno nero). Il primo viene prodotto a partire dal metano, mentre il secondo arriva dal carbone. Si tratta quindi di tutto fuorché di un combustibile pulito. Nello specifico, l’idrogeno grigio emette tra le 10 e le 12 tonnellate di anidride carbonica per ogni tonnellata di prodotto; l’idrogeno marrone/nero fa ancora peggio, arrivando alle 18/20 tonnellate.
Ci sono poi gli idrogeni che vengono definiti sostenibili. C’è quello blu, che viene realizzato a partire dai processi visti sopra, ma per il quale si suppone che l’anidride carbonica venga catturata e conservata sottoterra, in appositi depositi, senza quindi finire nell’atmosfera. Si tratta insomma di idrogeno grigio o marrone con l’eliminazione (o con l’occultamento) degli effetti collaterali nocivi. E poi c’è l’idrogeno verde, il quale viene prodotto mediante elettrolisi utilizzando delle energie rinnovabili, così da non conoscere effettivamente delle emissioni di anidride carbonica.
In estrema sintesi, l’idrogeno verde è l’unico che viene prodotto senza il coinvolgimento, in nessuna forma, di combustibili fossili. È verso questo combustibile sostenibile che si dovrebbe quindi puntare, sapendo che potrebbe essere prezioso nel processo di transizione soprattutto per tutte quelle attività in cui l’elettrificazione risulta particolarmente difficile: si pensa in particolare al trasporto navale, all’industria metallurgica, e via dicendo.
Per ora, come abbiamo visto, l’idrogeno verde conosce un utilizzo estremamente marginale, laddove l’industria dell’idrogeno nel suo complesso produce tanta anidride carbonica quanto Francia e Gran Bretagna messe insieme.
Ma è davvero possibile e sensato puntare sull’idrogeno verde come elemento fondamentale per la transizione energetica necessaria per combattere i cambiamenti climatici? I dubbi ci sono, e sono diversi. Perché si tratta di un combustibile – almeno per ora – molto costoso. Perché come abbiamo visto attualmente ne viene prodotto pochissimo. E perché la produzione di quantità importanti di idrogeno verde potrebbe non essere così virtuosa come si potrebbe pensare.
Per parlare di idrogeno verde davvero sostenibile, infatti, ci si dovrebbe riferire a combustibile prodotto usando delle fonti rinnovabili che non potrebbero essere usate comodamente per produrre dell’elettricità da immettere nella rete pubblica. E ancora, va sottolineato il fatto che un bel po’ dell’energia utilizzata nel processo viene “sprecata” nella doppia trasformazione da elettricità a gas, e quindi da gas a carburante. Non va poi dimenticato che la combustione dell’idrogeno, se non produce anidride carbonica, dà luogo a ossido d’azoto, il quale è stato associato alla pioggia acida e ai problemi respiratori.
C’è infine un’ultima cosa da considerare: un’indagine del think tank no-profit londinese Carbon Tracker ha dimostrato che, affinché l’idrogeno verde possa giocare un ruolo significativo per la transizione energetica, questo dovrebbe richiedere quantità enormi di acqua dolce. Si parla di circa un quarto del consumo annuo globale di acqua, elemento che certo non può andare d’accordo con le sempre più frequenti e pericolose siccità conosciute da diverse aree del mondo.
Considerazioni simili potrebbero essere fatte anche per quanto riguarda l’idrogeno blu, sapendo che non sempre lo storage dell’anidride carbonica prodotta viene effettivamente gestito come da definizione: tantissimi impianti utilizzano il diossido per pompare petrolio, tanti altri hanno chiuso per fallimento. E chi gestisce in modo corretto i magazzini di anidride carbonica lo fa a fronte di spese energetiche importanti, dovendo fronteggiare il rischio non indifferente di perdite di CO2.
La sola lettura delle etichette cromatiche dell’idrogeno, insomma, può trarre pericolosamente in inganno sull’uso attuale e futuro di questa risorsa.
Copywriter dal 2014, trentino dal 1987. Quando non viene distratto dalle montagne tentatrici che lo circondano, scrive, spesso e volentieri, di sostenibilità e dei temi a essa collegati. È convinto del resto che sia ormai impossibile (o quasi) parlare in modo approfondito di un qualsiasi argomento senza finire, presto o tardi, a discutere delle cruciali tematiche ambientali.