
Un’iniziativa nata in Cina ha catturato l’attenzione internazionale: il congedo di infelicità. In un Paese in cui la cultura del lavoro è spesso associata a turni infiniti e livelli di stress altissimi, una catena di supermercati ha deciso di introdurre un permesso speciale che consente ai dipendenti di prendersi una pausa quando si sentono tristi o sotto pressione. Non servono certificati medici né giustificazioni formali: basta riconoscere di non stare bene e si ha diritto a giorni di riposo retribuiti.
Un gesto che, oltre a rompere con la rigidità della tradizione lavorativa cinese, apre un dibattito internazionale sul valore della salute mentale nei luoghi di lavoro. Un segnale che non riguarda soltanto la Cina, ma che interroga anche noi su come vogliamo vivere e lavorare.
Le origini del congedo di infelicità
L’idea è nata dall’imprenditore Yu Donglai, fondatore della catena di supermercati Pang Dong Lai, che ha voluto reagire alla pressione e al logoramento che caratterizzano gran parte del mondo del lavoro cinese. Per anni i lavoratori del Paese hanno subito il cosiddetto modello “996”: dalle 9 del mattino alle 9 di sera, sei giorni a settimana. Un ritmo insostenibile che ha alimentato stress cronico, stanchezza diffusa e, come rivelano vari studi, un profondo senso di insoddisfazione.
In controtendenza rispetto a questa cultura, Pang Dong Lai si caratterizza per orari di lavoro più brevi (7 ore al giorno), fine settimana liberi e, in generale, l’attenzione al benessere dei dipendenti. In più, ha introdotto fino a 10 giorni di ferie retribuite all’anno da utilizzare quando ci si sente tristi, affaticati o incapaci di affrontare la routine.
Non c’è bisogno di un medico,ma soltanto il riconoscimento che la salute emotiva conta tanto quanto quella fisica. L’obiettivo è restituire equilibrio tra vita privata e professionale, dimostrando che prendersi cura dei dipendenti è anche un investimento per l’azienda stessa.
Come funziona questo nuovo diritto
L’azienda ha stabilito regole semplici e innovative. I dipendenti possono richiedere il congedo in qualsiasi momento, senza dover fornire giustificazioni formali o certificati medici. Il periodo massimo consentito è di 10 giorni all’anno, sempre pagati come normali giornate lavorative.
Un aspetto fondamentale è che la direzione non può rifiutare la richiesta: il permesso è garantito e negarlo significherebbe violare le regole aziendali. La filosofia di Yu Donglai è chiara: “Tutti hanno momenti in cui non sono felici; quindi, se non lo sei non venire a lavorare”. Una presa di posizione forte che ha trovato ampio sostegno sui social cinesi, dove la proposta è stata letta come un atto di coraggio contro una cultura del lavoro sempre più opprimente. In questo senso, il congedo di infelicità non è solo un benefit aziendale, ma un esperimento sociale che mette al centro la persona.
Obiettivi e benefici di questa scelta
Il congedo di infelicità ha più di un obiettivo:
- sostenere i dipendenti nei momenti emotivamente difficili, offrendo loro la possibilità di prendersi cura di sé senza il timore di perdere il lavoro o il salario;
- ridurre i livelli di stress e ansia, condizioni ormai riconosciute come fattori di rischio per la salute fisica oltre che mentale;
- aumentare la produttività: un lavoratore che rientra dopo un periodo di riposo sarà più motivato ed efficiente. In questo modo, l’azienda non perde, ma guadagna in rendimento e in stabilità del personale;
- promuovere un miglior equilibrio tra vita e lavoro significa allontanarsi dal modello esasperato del “996” e proporre un’idea di occupazione più sostenibile.
Non vanno sottovalutati i benefici relazionali: un’impresa che dimostra attenzione reale al benessere dei propri dipendenti rafforza il legame di fiducia e lealtà con loro. Questo genera un clima di maggiore gratitudine, riduce il turnover e crea una reputazione positiva, tanto all’interno quanto all’esterno dell’azienda. Per una società come quella cinese, dove parlare di salute mentale è ancora complesso, il congedo di infelicità apre una breccia culturale che potrebbe portare a cambiamenti ben più ampi.
L’infelicità conta: una riflessione finale
Il congedo di infelicità è una misura che sorprende e fa discutere, ma che porta con sé un messaggio potente: riconoscere la fragilità umana come parte della vita lavorativa. In un mondo che corre veloce, prendersi tempo per sé non è un lusso, ma una necessità. La scelta di Yu Donglai mostra che un altro modello è possibile, anche nei contesti più esigenti. Guardando a questa esperienza, viene naturale chiedersi se politiche simili potrebbero essere introdotte anche altrove. Non si tratta solo di ferie in più, ma di una nuova visione del lavoro che mette al centro la dignità e il benessere della persona. E forse, proprio da iniziative come questa, può nascere un futuro in cui la produttività non sia più in contrasto con la felicità.