La FAO (Food and Agricolture Organization, divisione interna all’ONU che si occupa di alimentazione) ha portato avanti un’approfondita ricerca per analizzare quanto impatti il settore agricolo sulle emissioni globali. I dati utilizzati sono stati raccolti tra il 1990 e il 2015 e poi catalogati e analizzati in collaborazione con i ricercatori del Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea. Lo studio è servito come base e punto di partenza per la banca dati comune EDGAR-FOOD, richiesta da Bruxelles e istituita presso il Joint Research Centre (JRC, un hub di ricerca europeo con sedi diffuse sul territorio di vari Paesi membri).
Stando ai risultati del dossier, il settore alimentare sarebbe responsabile di oltre un terzo delle emissioni di gas a effetto serra. I numeri dicono infatti che il 34% del biossido di carbonio liberato annualmente nell’atmosfera provenga proprio da questo ambito. La percentuale è rilevante. Ciò si deve anche al fatto che non c’è una cultura diffusa dell’ottimizzazione ecologica. Le tecnologie attuali, e l’adozione di buone pratiche, ci consentirebbero di fare meglio, abbassando in maniera sensibile l’impatto di questo indotto.
Come potremmo rendere più sostenibile il settore alimentare? Per riuscire in questo intento vanno ridotti i costi produttivi alla base, al livello della produzione agricola.
Tra le varie soluzioni – al netto delle possibilità economiche, politiche e sociali dei vari Paesi del mondo – quelle che appaiono più fattibili per il settore agricolo sono le seguenti:
- l’agricoltura di precisione;
- l’uso di biotecnologie;
- la riduzione degli sprechi alimentari.
Il punto 3 rappresenta – almeno in teoria – l’obiettivo più facilmente raggiungibile. Secondo il portale Earth.org sull’intero pianeta Terra, ogni anno, si getta via l’allucinante quantità di 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti destinati al consumo umano. Per chiunque faticasse a visualizzare di quanto cibo si stia parlando consideriamo che il valore economico corrispondente sarebbe di circa un trilione di dollari. Un trilione sono un milione di milioni, dunque mille miliardi di dollari di alimenti perfettamente edibili che vengono cestinati. Ogni 12 mesi.
Per essere ancor più chiari, tale quantità di cibo sfamerebbe 200 milioni di europei, 300 milioni di latinoamericani e altri 300 milioni di africani. In media, ogni europeo e nordamericano getta nella spazzatura circa 100 chili di alimenti ogni 365 giorni mentre ogni asiatico una decina di chili. Va da sé che già riducendo questo valore – o ancor meglio, azzerandolo proprio – miglioreremmo, e pure di molto, la situazione, abbassando in maniera sensibile i costi dell’alimentare.
Con il termine agricoltura di precisione intendiamo uno studio meticoloso, puntuale e – appunto – preciso della coltura. Si tratta di una precisa strategia di gestione dell’attività agricola che si basa sulla raccolta, l’elaborazione e l’analisi di dati relativi a tutte le fasi produttive. Gli elementi raccolti vengono conservati e valutati per orientare le decisioni future. Un tale approccio, molto più scientifico, ha l’obiettivo di migliorare l’efficienza nell’uso delle risorse, la produttività, la redditività, la qualità e la sostenibilità del polo agrario.
Questo elaborato processo ottimizza la gestione della produzione a diversi livelli: adeguando le pratiche alle esigenze delle colture, decidendo per esempio se impiegare o meno fertilizzanti e, nel caso, valutare in quale quantità utilizzarne, è un miglioramento agronomico. Ridurre rischi e costi per il Pianeta dell’attività sul terreno è un avanzamento ambientale. Incrementare la competitività dell’azienda agricola optando per pratiche più rapide ed efficienti è un notevole passo avanti sotto il punto di vista economico.
La tecnologia gioca un ruolo importante anche per contenere le emissioni dell’indotto dell’allevamento. Sono tanti gli attori che contribuiscono all’inquinamento causato dall’alimentare, a tutti i livelli della piramide. Abbiamo evidenziato le responsabilità del consumatore (gli sprechi) e citato gli allevatori. Il focus di questo approfondimento resta però sugli agricoltori, i quali possono implementare subito delle buone pratiche. Oltre alla coltura di precisione, possono infatti sfruttare anche le più avanzate biotecnologie.
Le tecniche più avanzate sono costose e non tutti i governi possono permettersele. Numerosi Stati in via di sviluppo o del terzo mondo non hanno a oggi le risorse per potersi dotare di simili strumenti e devono affidarsi ai privati.
Il settore delle biotech è in piena espansione. La tecnologia mira a far fronte a sfide globali come la fame, la malnutrizione e i cambiamenti climatici. In tutto il mondo, le colture che sfruttano le più recenti scoperte biotecnologiche coprono oltre 190 milioni di ettari (dati ISAAA, International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications) e sono in continuo incremento. Stati Uniti, Brasile, Argentina, Canada e India sono i principali Paesi che le impiegano e lo fanno principalmente per produrre soia.
La regolamentazione UE pone un freno alle biotecnologie perché non consente l’utilizzo di alcun tipo di organismo geneticamente modificato sul territorio comunitario. Non esistono però impedimenti all’importazione di prodotti contenenti OGM, soprattutto se destinati alla nutrizione animale. Si tratta di un evidente paradosso.
L’Italia si sta muovendo attivamente. Nel 2020 è stato siglato un patto tra scienziati e operatori agricoli per una cosiddetta genetica green. L’intesa porta le firme di Coldiretti e SIGA (Società Italiana di Genetica Agraria) e si pone lo scopo di tutelare la biodiversità dell’agricoltura italiana migliorando l’efficienza dell’intero modello produttivo. Per riuscirvi saranno impiegate nuove tecnologie genetiche, dette TEA (Tecnologie di Evoluzione Assistita), capaci di riprodurre, in maniera mirata, i meccanismi alla base dell’evoluzione biologica naturale. La procedura non prevede l’utilizzo di DNA estraneo alla coltura.
La modifica del genoma è una pratica che non convince tutti, tanto che molti sono apertamente schierati contro questo tipo di biotecnologie. Se eticamente la posizione è comprensibile, occorre d’altra parte tenere in considerazione quanti e quali vantaggi ambientali essa comporterebbe. Le colture così trattate resisterebbero ai cambiamenti climatici estremi e non necessiterebbero trattamenti a base di fertilizzanti. Le TEA non sono un trattamento invasivo e diversi Paesi membri della UE stanno scrivendo o hanno già scritto leggi per sfruttarle.
Manca ancora una normativa comunitaria ma creare un circuito europeo di tecnologie di evoluzione assistita sarebbe un passo importante: regolamenterebbe l’agricoltura frutto di modificazione genetica, darebbe modo al consumatore di fidarsi di quel che mangia e consentirebbe un minore consumo di risorse naturali in quanto i suoli avrebbero meno bisogno di concimi e pesticidi.
Crediti fotografici: Tom Fisk su Unsplash
Classe 1991, non nasce amante della scrittura. Tutto cambia però quando viene convinto a entrare nella redazione del giornalino d’istituto del liceo: comincia a occuparsi di musica e poi in seguito di sport, attualità, cultura, mondialità e tendenze nel globo, ambiente ed ecologia, globalizzazione digitale. Dall’adolescenza in poi, ha riposto la penna soltanto per sostituirla con una tastiera.