Una crisi profonda, alimentata da anni di corruzione, disoccupazione giovanile e restrizioni alla libertà d’espressione è alla base delle violente proteste in Nepal che ieri, 9 settembre, hanno portato alla parziale devastazione della sede del Parlamento, il Singha Durbar, dato alle fiamme da un gruppo di manifestanti.
Tutto è iniziato qualche giorno fa, quando il governo aveva bloccato 26 piattaforme social, tra cui Facebook, X (ex Twitter) e YouTube, accusandole di operare in violazione delle normative locali. Una mossa che ha acceso una miccia in una popolazione già esasperata e dunque, anche se il divieto è stato revocato in fretta, il danno politico era ormai fatto. I cortei si sono moltiplicati, e nel giro di 48 ore il Paese è piombato nel caos. Oltre 25 morti, centinaia di feriti, e una lunga lista di edifici colpiti: residenza presidenziale, corte suprema, sedi governative, perfino l’Hotel Hilton e la sede di una nota casa editrice. L’aeroporto internazionale di Kathmandu è rimasto chiuso per ore. Di fronte a una rivolta che nessuno è riuscito a contenere, il premier KP Sharma Oli si è dimesso. Solo nelle ultime ore, l’esercito nepalese è riuscito a riprendere il controllo.
Giovani in piazza: la sfiducia diventa ribellione
Non è solo un’esplosione di rabbia. Le proteste guidate dalla Generazione Z, che rappresenta circa metà della popolazione nepalese, affondano le radici in un malessere sociale sedimentato negli anni. In un Paese in cui l’età media della classe politica si aggira attorno ai 70 anni, le nuove generazioni denunciano un sistema chiuso, clientelare, refrattario a ogni forma di rinnovamento.
Il blocco dei social è stato solo l’innesco. Dietro le barricate ci sono milioni di giovani esclusi dal mondo del lavoro, spesso costretti a emigrare per sopravvivere. Una leadership percepita come distante e autoreferenziale ha esacerbato il senso di abbandono. Così, da movimento pacifico, le proteste si sono trasformate in una sommossa nazionale che chiede riforme radicali e un ricambio vero nelle istituzioni.
Le modalità con cui il governo ha reagito, tra repressione violenta e tentativi maldestri di censura, hanno solo aggravato il divario tra classe dirigente e cittadinanza. Nessun partito politico è riuscito a intercettare le istanze della piazza, né a proporsi come interlocutore credibile.
Coprifuoco e diplomazia
Per arginare le violenze, l’esercito ha imposto il coprifuoco serale in tutto il Paese. Una misura che, pur rallentando i disordini, non sembra capace di invertire il clima di tensione. Il presidente Ram Chandra Paudel ha lanciato un appello al dialogo tra forze politiche e movimenti civici. Ma la sfida è complessa: la generazione in rivolta non chiede semplici concessioni, ma un nuovo contratto sociale. Nel vuoto di leadership, tra le figure più interessanti a cui poter fare riferimento, il sindaco di Kathmandu, Balendra Shah, ex artista hip hop e ora politico indipendente, visto da molti come possibile catalizzatore di un cambiamento autentico. Le sue posizioni decise contro la corruzione e il suo linguaggio diretto lo rendono una figura in forte ascesa.
Intanto, la comunità internazionale osserva con crescente preoccupazione. Dall’India alle Nazioni Unite, arrivano appelli alla calma e al rispetto dei diritti civili. Il Nepal è entrato in una fase inedita della sua storia democratica: uscire da questa crisi richiederà non solo ordine pubblico, ma capacità di ascolto e trasformazione reale.
Una crisi sistemica, non solo politica
La fiammata di protesta in corso è il sintomo di una crisi sistemica che non riguarda solo il governo dimissionario. L’intero impianto istituzionale nepalese, nato dopo anni di transizione post-monarchica, mostra ora evidenti segni di usura. Le promesse di partecipazione, sviluppo e trasparenza, più volte enunciate, si sono spesso dissolte in pratiche opache e logiche di potere.
L’incendio del parlamento non è solo un atto vandalico, ma rappresenta un grido collettivo contro un sistema che molti ritengono irrecuperabile. Eppure, la speranza di cambiamento esiste. Si manifesta nelle richieste di una nuova rappresentanza, nei modelli partecipativi promossi dalla società civile, nei movimenti giovanili che rifiutano l’appartenenza partitica ma rivendicano un ruolo politico.