Ecco perché è ancora necessario leggere "La fattoria degli animali" di George Orwell

"La fattoria degli animali" di Orwell è una satira feroce travestita da favola, che esplora i meccanismi della propaganda e del potere corrotto. Un libro ancora attualissimo per chi si interroga su giustizia e derive autoritarie.

In un’epoca in cui la parola rivoluzione si associa anche all’ultimo modello di friggitrice ad aria, leggere (o rileggere, beninteso) La fattoria degli animali è un atto di disintossicazione culturale.

George Orwell ci trascina in una ribellione che parte dal basso per finire, però, nel peggiore dei modi. Una metafora tagliente che parla di propaganda, corruzione, manipolazione, scritta con un linguaggio semplice, diretto, asciutto. Una favola moderna dove gli animali prendono voce e raccontano come i regimi crescono, mutano pelle e si giustificano e di come una rivoluzione che promette uguaglianza e finisce per peggiorare tutto.

Da quale contesto prende vita “La fattoria degli animali”

Quando George Orwell scrive La fattoria degli animali, la guerra è ancora in corso. È il 1943, l’Europa sta crollando sotto le macerie e i confini ideologici cominciano a ridisegnarsi ben prima di quelli geografici. L’opera esce effettivamente nel 1945, ma il manoscritto circola da tempo tra editori riluttanti: pubblicare una satira sull’Unione Sovietica — alleata contro la Germania nazista — non è esattamente una mossa conveniente. Alcuni rifiutano per timore di compromettere i rapporti diplomatici, altri per semplice conformismo. Eppure, Orwell va avanti. Non è solo la critica al regime stalinista a motivarlo, ma l’urgenza di smascherare i meccanismi di manipolazione che possono attecchire ovunque, anche in sistemi nati con intenti egualitari.

Dietro lo pseudonimo, infatti, c’è un intellettuale che ha vissuto la guerra civile spagnola in prima linea e che non crede più all’idea di rivoluzione come panacea. Nonostante sia un socialista convinto, infatti, l’esperienza in Spagna lo porta a criticare fortemente il comunismo, che, nella versione stalinista, costituisce una forma di totalitarismo che tradisce i suoi ideali socialisti originari.

La fattoria degli animali nasce quindi in un’epoca di ricostruzione materiale e, allo stesso tempo, di grande confusione ideologica. La narrativa ufficiale celebra la vittoria dei popoli alleati, ma Orwell intuisce che dietro l’entusiasmo si nasconde qualcosa di più oscuro: un nuovo ordine mondiale pronto a sostituire quello appena crollato, con nuovi padroni e nuove menzogne. Tra censura strisciante, illusioni di progresso e fragili promesse di pace, il romanzo prende forma. Apparentemente una favola, che richiama gli animali parlanti di Esopo, è in realtà un’operazione chirurgica sul linguaggio e sul potere.

La morale: un’allegoria sul potere che divora se stesso

Non serve quindi l’occhio di un espertissimo filologo per comprendere il senso del romanzo: La fattoria degli animali non è soltanto un racconto di maiali autoritari e cavalli obbedienti, ma un meccanismo narrativo che mostra come il potere — una volta conquistato — tenda a riprodurre le stesse ingiustizie che si proponeva di eliminare. La rivoluzione, per quanto necessaria, non basta. Le strutture si trasformano, le parole cambiano significato, le bandiere vengono ridisegnate, ma il dominio resta. Cambia solo il volto di chi lo esercita.

Orwell non si limita a descrivere la degenerazione di un’utopia; ne analizza la progressiva corruzione attraverso piccoli gesti, slogan ambigui, rituali svuotati. Nessun personaggio è davvero immune, nemmeno i più ingenui. L’ideale dell’uguaglianza cede lentamente sotto il peso della paura, dell’obbedienza, dell’autoinganno. E chi dovrebbe ricordare, denunciare, opporsi — spesso tace o dimentica, travolto da un linguaggio che anestetizza il pensiero.

Il libro si muove come un’analisi fredda, quasi clinica, della facilità con cui le masse accettano l’ingiustizia, purché venga impacchettata con le parole giuste. Non c’è un lieto fine, né un colpevole da isolare. Il male, qui, è strutturale. Non nasce da un individuo malvagio, ma da una collettività che smette di vigilare. E così, alla fine, non resta che una verità scolpita su un muro:

“Tutti sono uguali, ma qualcuno lo è più degli altri”.

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