Nell’universo narrativo di Zerocalcare, fatto di mostri interiori che parlano con accento romano e cronache di una generazione che fatica a trovare senso e stabilità, c’è sempre stato un grande assente: il padre. In Quando muori resta a me, pubblicato da Bao Publishing il 7 maggio 2024, l’autore finalmente decide di rompere questo silenzio. E lo fa nel modo più spiazzante possibile, con un’opera autobiografica di 304 pagine che scava nelle profondità del rapporto con il genitore, tra dolori taciuti, imbarazzi quotidiani e un’eredità che pesa come un macigno. Il titolo stesso è una promessa che suona come una condanna: “quando muoio resta a te”. Un lascito, certo, ma anche una trappola emotiva da cui Zerocalcare cerca disperatamente di liberarsi.
Padri, fantasmi e Dolomiti
Tutto comincia con un viaggio verso Merìn, piccolo paese tra le Dolomiti, per sistemare una casa allagata. Un pretesto, forse, ma anche l’innesco per affrontare qualcosa di ben più complesso: le crepe di un rapporto che si è sempre tenuto in piedi su un equilibrio precario. Il padre – o “Genitore 2”, come viene ironicamente chiamato – è una figura muta, quasi estranea, che improvvisamente si ritrova a dividere chilometri di strada e silenzi con un figlio che ha fatto dell’introspezione una forma d’arte. Il paese, ostile e carico di memorie scomode, diventa il teatro di un confronto inevitabile, dove la casa da sistemare è solo l’ennesima metafora.
Linguaggi rotti e catene invisibili
Ciò che rende questo graphic novel tanto potente non è solo la tematica, ma la brutalità con cui Zerocalcare costringe se stesso a togliere la maschera. Le difficoltà di comunicazione con il padre non sono solo un dramma privato, ma il riflesso di un’intera cultura che ha insegnato agli uomini a non piangere, a non abbracciare, a non parlare. Il non detto diventa il vero protagonista del racconto, amplificato dai silenzi e dai vuoti tra le vignette. Ed è proprio qui che si innesta il senso di colpa, quel senso di inadeguatezza che attraversa tutta l’opera di Zerocalcare, ma che qui raggiunge una forma di maturità nuova, più lucida e più feroce.
Radici e ricordi
Merìn non è solo uno sfondo: è un personaggio a sua volta, anzi, un antagonista. Il paese non ha mai accettato la famiglia paterna e dietro il rancore si nasconde un misterioso evento, Il giorno di Merman, che aleggia come una maledizione. Questo elemento quasi mitologico si intreccia con la memoria storica e familiare, aprendo un nuovo livello di lettura: quello delle radici che invece di nutrire, avvelenano. L’autore riesce a fondere memoria collettiva e trauma individuale, costruendo una narrazione che è insieme personale e politica, intima e generazionale.
Un lascito da cui fuggire
La casa da ristrutturare è l’eredità tangibile, ma ci sono anche altri lasciti: il cinismo, l’incapacità di esprimere affetto, il timore di diventare come lui. In questo senso, Quando muori resta a me è un’opera sulla paura: paura della morte del padre, certo, ma anche paura di diventare padri, di non sapere come esserlo. Zerocalcare affronta la questione con il suo consueto registro, alternando momenti di acuta malinconia a lampi di umorismo fulminante. Le sue creature interiori intervengono come sempre, ma stavolta sembrano più stanche, più disilluse.
Uno specchio senza sconti
Dal punto di vista stilistico, Quando muori resta a me è un esperimento riuscito. La narrazione salta tra piani temporali, introducendo una seconda voce narrante che destabilizza e arricchisce il racconto. L’autobiografia si mescola alla finzione in modo più radicale del solito, obbligando l’autore a guardarsi allo specchio con occhi nuovi. Lo stile è quello che i lettori amano, con citazioni pop, dialoghi serrati e un bianco e nero che sa essere claustrofobico o commovente a seconda delle necessità. Ma qui c’è qualcosa in più: la volontà di fare pace con un fantasma ancora vivo.
