Violenza sessuale: il tempo di reazione non conta più

La Cassazione ha stabilito che il tempo di reazione della vittima non è rilevante per configurare la violenza sessuale. Una sentenza storica che riconosce il blocco psicologico e il freezing come risposte naturali, spostando il focus sulla condotta dell'aggressore.

Violenza sessuale: il tempo di reazione non conta più - immagine di copertina

    Per molto tempo, la giustizia italiana ha considerato anche l’orologio tra gli elementi utili a valutare la fondatezza di una denuncia per violenza sessuale. In un paese in cui il diritto ha spesso guardato con diffidenza alla soggettività del trauma, la reazione della vittima veniva cronometrata, come se l’abuso fosse una sfida da affrontare a mente lucida, magari con un cronometro alla mano. Ma ora qualcosa è cambiato. La Corte di Cassazione, con una sentenza che ha già fatto rumore, ha stabilito che il tempo impiegato dalla vittima per reagire all’abuso non ha alcuna rilevanza giuridica. Un’affermazione che mette fine a decenni di processi in cui la lentezza della risposta veniva trasformata in complicità, e che segna un importante progresso nella comprensione legale della violenza sessuale.

    Il caso della hostess e la sentenza dei 30 secondi

    La sentenza in questione riguarda il caso, fin troppo noto, di una hostess molestata da un ex sindacalista durante un incontro di lavoro. I giudici di primo e secondo grado avevano assolto l’imputato, sostenendo che la donna avrebbe potuto reagire in venti, al massimo trenta secondi, evitando così l’abuso. Un ragionamento che sembra uscito da un manuale di autodifesa per robot più che da un’aula di tribunale. Fortunatamente, la Cassazione ha ribaltato questa visione meccanica della violenza, riconoscendo che il trauma non risponde a comandi rapidi, e che la sorpresa, la paura, il blocco psicologico sono parte integrante dell’esperienza della vittima.

    Il freezing non è complicità

    Secondo la Suprema Corte, la cosiddetta “inerzia” iniziale, cioè il tempo intercorso prima che la vittima manifesti il proprio dissenso, non può essere interpretata come accondiscendenza. Anzi, è proprio quel tempo a raccontare l’effetto paralizzante dell’abuso, l’incapacità momentanea di comprendere, reagire, difendersi. La Corte ha riconosciuto l’esistenza del meccanismo psicologico noto come “freezing”, una risposta istintiva al pericolo che immobilizza chi subisce una violenza improvvisa. Non è una scusa, è un fatto, documentato da studi scientifici e finalmente accolto anche nella logica giuridica.

    Addio al modello unico di vittima

    Un altro punto cruciale della sentenza riguarda l’idea, pericolosa e antiquata, che esista un comportamento “normale” o “atteso” da parte di chi subisce una violenza. Come se tutte le vittime dovessero reagire allo stesso modo, con la stessa prontezza, la stessa rabbia, la stessa lucidità. La Cassazione ha chiarito che non esiste un modello unico di vittima. Ogni persona reagisce in base alla propria storia, al proprio stato emotivo, al contesto in cui si trova. Pretendere una reazione standard significa ignorare la complessità dell’esperienza umana e, di fatto, perpetuare la cultura della colpevolizzazione.

    Verso una nuova giurisprudenza sul consenso

    Dal punto di vista giuridico, la sentenza segna una svolta importante. In assenza di una definizione esplicita di “consenso” nel codice penale italiano, i giudici stanno progressivamente costruendo una giurisprudenza che pone al centro la volontà della persona coinvolta. Non si tratta più di dimostrare una resistenza fisica, ma di valutare la condotta dell’imputato in relazione alla presenza o assenza di un consenso chiaro e libero. E se quel consenso non c’è, non importa quanto tempo ci abbia messo la vittima a dirlo. La violenza c’è stata, punto.

    Il silenzio non è una colpa

    Le reazioni alla sentenza sono state ampiamente positive. Associazioni come Differenza Donna hanno sottolineato come questo pronunciamento rappresenti un passo avanti nella tutela delle vittime e nella lotta contro la violenza di genere. Finalmente, la giustizia sembra voler ascoltare le donne non solo quando gridano, ma anche quando restano mute, paralizzate, incapaci di reagire. Perché il silenzio, in certi momenti, è già una forma di sopravvivenza, e non può diventare una prova contro la vittima.

    Il tempo non assolve

    Chi pensava che trenta secondi potessero bastare a decidere se si è vittime o complici, oggi dovrà aggiornare il proprio orologio morale. La violenza sessuale non è una questione di secondi, ma di diritti violati. E il tempo, finalmente, non è più dalla parte dell’aggressore.

     

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