Il rumore del mare e del vento: è questo che accompagna Enzo Suma nelle sue giornate di raccolta rifiuti nelle spiagge. Attività che svolge da anni, totalmente volontaria e non remunerata, una parte della sua giornata dedicata alle spiagge della sua Puglia. Un giorno, trova una spuma spray abbronzante col prezzo in lire in commercio tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, si incuriosisce e pubblica un post sulla sua pagina Facebook.
È in quel momento che nasce il progetto Archeoplastica, non tanto dalla raccolta di quello che si può definire a tutti gli effetti un “reperto” quanto dalla condivisione di quel ritrovamento e soprattutto dalla partecipazione delle persone sotto quel post. I social che ci piacciono: non quelli popolati da odiatori seriali e negazionisti, ma da persone che fanno domande, interagiscono tra loro e cercano soluzioni. Quei social che creano reti sociali e che servono a mobilitare coscienze.
Oggi vi vogliamo parlare di Archeoplastica, un progetto con la “finalità etica di sensibilizzare sul tema dell’inquinamento dei mari determinato dall’utilizzo della plastica e, nello specifico, dalla scorretta gestione del fine vita della stessa”, come recita il claim a ogni accesso al sito. Sensibilizzare attraverso le storie che, sotto forma di rifiuti, navigano tra le onde e approdano sulle spiagge. Un po’ come i racconti dei marinai che tornavano da terre lontane: qui invece le storie sono le nostre, delle nostre estati di tanti anni fa e dei giochi perduti (o abbandonati).
La raccolta prende avvio nel 2018, dopo il ritrovamento casuale di cui parlavamo all’inizio. Il vero punto di svolta è stato però l’attenzione e la curiosità della gente attorno a quell’oggetto, le discussioni e le riflessioni.
Da quel momento, ho prestato maggiore attenzione alle etichette dei rifiuti che raccoglievo. Ho cominciato a notare più dettagli e fare ricerche. In pochissimo tempo ho raccolto diversi pezzi “storici”. Dopo la laurea mi sono occupato di educazione ambientale nelle aree naturali del territorio e già allora organizzavo raccolte collettive di plastica: le chiamavamo “raccolte ignoranti”, perché si prendevano i rifiuti e si mettevano nel sacco. Dopo quel primo ritrovamento, ho chiesto anche agli altri partecipanti di fare più attenzione.
Nel febbraio del 2021 nasce il vero e proprio progetto Archeoplastica:
Comincio a riflettere e chiedermi che cosa si può fare con questi reperti. Dopo averne accumulati circa duecento, ho ufficializzato un progetto strutturato. La necessità primaria era “mostrare” – il sito di Archeoplastica è un vero e proprio museo virtuale, dove i reperti sono osservabili in 3D; oltre a quello, vengono anche organizzate mostre dal vivo, itineranti, proprio con l’idea di far conoscere il progetto in posti diversi; infine, da non sottovalutare anche e soprattutto per la valenza collettiva, i social network, come Instagram. Era importante anche però saper “raccontare” le storie di quegli oggetti provenienti dal mare e riuscire a ricostruirle.
Tra queste, quella del “misterioso clown greco” e che potete leggere qui. Reperto degli anni Sessanta, rimane per un po’ un vero e proprio mistero e ritrova la sua storia proprio grazie all’intuizione di una follower e all’attività della community. Il coinvolgimento delle persone è fondamentale anche quando c’è da ricostruire la storia della trottola-gelato di una ditta di Rosarno, in Calabria, chiusa negli anni Settanta con la morte del suo fondatore.
C’è quindi un filo di continuità tra il progetto e la sua community, un’idea di collaborazione, una condivisione e una costruzione comune, oltre che un lavoro di ricerca molto elaborato. Storie di oggetti che tirano fuori la storia dei luoghi da cui provengono.
È proprio qui il punto del progetto: sfruttare la “poesia” attorno ai reperti e il senso di nostalgia che alcuni possono provare nel vedere un oggetto che faceva parte del loro quotidiano nel passato e utilizzarli come una sorta di esca per attirare l’attenzione su temi fondamentali, ma che non tutti trovano “interessanti”.
Archeoplastica porta consapevolezza perché hai la possibilità di vedere con i tuoi occhi la tematica di cui senti parlare così spesso, quella della plastica nei mari, plastica vecchia datata cinquant’anni fa che ancora viaggia tra le onde. Un progetto che attira l’attenzione e spinge a prendere consapevolezza e forse porterà in futuro a degli atteggiamenti di consumo più virtuosi. Ricevo molti messaggi grazie ai social e media e giornalisti si sono interessati al mio progetto: questo mi fa pensare che quello che stiamo facendo possa essere un valido strumento per aumentare consapevolezza, uno degli obiettivi che spero di raggiungere.
C’è molta più plastica di quello che pensiamo.
Il processo di raccolta di plastica non è stagionale, ma avviene durante tutto l’anno.
D’inverno però riesco a spostarmi meglio e con meno intoppi, visto che a partire da maggio tutti i comuni si adoperano per pulire le spiagge quotidianamente e per tutta l’estate. Con l’abbandono della pulizia quotidiana degli operatori e l’arrivo delle mareggiate, aumenta costantemente la quantità di plastica sulle spiagge.
Anche in estate in quelle spiagge libere, più selvagge e difficili da raggiungere è possibile comunque trovare oggetti di ogni tipo. In inverno anche le spiagge turistiche, curate e pulite quotidianamente durante l’alta stagione, si riempiono di plastica che il mare restituisce.
Molti non credono che ci sia tutta questa plastica nel mare. Eppure senza questa opera di pulizia quotidiana, anche durante l’estate le spiagge sarebbero sporchissime.
Un modello di consumo che non è più sostenibile.
La plastica è un materiale resistente, destinato a rimanere nel tempo e se non gestito correttamente ha un impatto diretto sull’ambiente.
L’attività che faccio sui social non riguarda solo i reperti datati: molti post si concentrano su oggetti usa e getta che, in maniera seriale, ritrovo nelle spiagge. Il nostro stile di vita incide fortemente sull’ambiente che abbiamo intorno, è innegabile. Io mostro oggetti datati per dimostrare che è da quando abbiamo iniziato a utilizzare la plastica negli anni Cinquanta che questa inquina i nostri mari: la quantità di plastica utilizzata allora esiste ancora oggi ed è in giro. La maggior parte dei prodotti che raccolgo sono comunque moderni, attuali, o al massimo di pochi anni fa.
Non si deve quindi pensare che ciò che si trova oggi in spiaggia è esclusivamente legato al passato e dunque all’uso sbagliato di una volta: molti rifiuti sono legati al nostro attuale modello di consumo. La dispersione di tutto questo materiale e la necessità di raccoglierlo non finirà con la nostra generazione, ma sarà il nostro lascito per quelle future, che avranno ancora molto da fare.
Ci sono due tipologie di oggetti diversi che mi fanno rendere conto che il progetto è importante e mi motivano a continuare. I primi sono sicuramente gli oggetti più datati, magari rovinati e deteriorati a causa del lungo viaggio che hanno fatto in mare e tra le scogliere e che dopo tutto questo tempo sono ancora in giro. Come i flaconi di detergenti per la casa, probabilmente molto commercializzati e utilizzati anni fa e che abbiamo quindi più probabilità di ritrovare nelle spiagge. E questo si riaggancia all’altra categoria, ovvero gli oggetti più moderni e attuali e molto utilizzati nella quotidianità. Per fare un esempio: solo nella raccolta di oggi, ho accumulato una cinquantina di accendini. Sono usa e getta, non ricaricabili, durano poco e costano poco, quindi se li perdi non è un problema. Galleggiano sull’acqua e dopo un po’ il mare li restituisce. Ecco perché ce ne sono così tanti: non li ho mai contati ma sono un numero esagerato. E non ci sono solo gli accendini, ma tanti di quegli oggetti usa e getta di cui si potrebbe facilmente trovare un’alternativa più sostenibile in commercio.
Ora come allora, il nostro modo di consumare è molto incosciente e poco attento. E il progetto di Archeoplastica ha questa duplice anima: le storie dei vecchi oggetti e delle vecchie abitudini e la narrazione del presente e del nostro attuale stile di vita. Oggetti vecchi e nuovi, spesso presenti in modo seriale, che invadono i nostri mari e conseguentemente le nostre spiagge.
Non dimentichiamoci poi delle microplastiche: più passa il tempo e più aumenta la quantità di microplastiche e nanoplastiche che non siamo in grado di eliminare dall’ambiente marino. Le conseguenze le stiamo scoprendo adesso, ora che la comunità scientifica si sta concentrando da pochi anni sul tema delle microplastiche: un danno per gli ecosistemi e per la nostra salute in costante aumento.
Qual è la soluzione a tutto questo?
Ma in che modo tutta questa plastica finisce nel mare?
Se il processo di raccolta non viene gestito correttamente e quindi se c’è una qualsiasi dispersione di materiale nell’ambiente, questo arriva al mare tramite diverse vie (fiumi, canali temporanei, depuratori). Tipico esempio sono i cotton fioc gettati nel WC e che finivano a galleggiare in mare, prima che venisse vietata la vendita di questi oggetti monouso con bastoncini in plastica.
Il fatto è che stiamo utilizzando un materiale destinato a sopravvivere a noi, per utilizzi solo temporanei: qualche mese, qualche settimana o addirittura qualche minuto. Un oggetto utilizzato per pochissimo tempo, che spesso esaurisce la sua funzione in un solo utilizzo, che diventerà un rifiuto e rimarrà tale per anni.
E, sebbene fondamentale, anche il discorso del riciclo è più complesso di quel che si pensa. Un materiale come la plastica si può riciclare, ma perderà di qualità e necessiterà di integrazioni. Da una bottiglia in plastica usata non si ricaverà una bottiglia in plastica nuova perché produrre plastica riciclata comporta comunque dar vita a nuova plastica.
E dunque cosa fare? Da parte nostra dovremmo cercare di ridurre la quantità di rifiuti di materiale monouso, primi tra tutti gli imballaggi: ad esempio facendo attenzione al packaging durante l’acquisto e preferendo alternative meno invasive.
Il tema del packaging torna ad esempio quando si parla di deposito cauzionale: anche l’Italia, come fanno altri Paesi europei da oltre vent’anni, potrebbe e dovrebbe consolidare un sistema di questo tipo (il consumatore prende in prestito l’imballaggio tramite una piccola cauzione che gli viene restituita quando lo riporta indietro). Questo incentiva e responsabilizza sia il consumatore che il commerciante e permette di avere un più alto tasso di riciclo e meno rifiuti dispersi nell’ambiente.
Non esiste quindi un’unica ricetta per la perfetta sostenibilità, ma una combinazione di soluzioni da adottare contemporaneamente, a partire dall’educazione ambientale – che dovrebbe essere costante nel tempo, presente in tutto il ciclo di studi e dovrebbe essere obbligatoria nelle scuole – per arrivare alla normativa. Una normativa che vieti la produzione stessa di plastica usa e getta, dagli imballaggi agli oggetti monouso: è questa la soluzione più importante di tutte.
L’agire di una normativa è indispensabile: è una strada che si sta delineando, ma con lentezza. Per quanto siano fondamentali il nostro comportamento e la nostra coscienza, questi non sono sufficienti: per produrre un sostanziale cambiamento la normativa deve essere aggiornata.


Nata a Roma nel 1993, si è laureata in Lettere, con specializzazione in Storia Contemporanea. Attenta al mondo che la circonda, crede fortemente nel potere della collettività: ognuno, a modo suo, può essere origine del cambiamento. Amante del cinema e della letteratura, sogna di scrivere la storia del secolo (o almeno di riuscire a pensarla).