Katy Perry nello spazio: non è una barzelletta. Procediamo con ordine: quando il 14 aprile Blue Origin ha annunciato la sua prossima missione suborbitale interamente al femminile, con a bordo anche la popstar Katy Perry, la notizia ha immediatamente fatto il giro del mondo. Non tanto per il valore tecnologico dell’impresa, quanto per il suo carico simbolico: sette donne, provenienti da contesti molto diversi tra loro, saliranno a bordo del New Shepard e solcheranno la linea di Kármán, quel confine teorico tra Terra e spazio che per decenni è stato attraversato quasi esclusivamente da uomini.
In questa nuova era dell’esplorazione spaziale, la presenza di una celebrità internazionale come Perry accanto a scienziate, imprenditrici e atlete rappresenta molto più di una trovata pubblicitaria: è l’immagine vivida di un cambiamento di paradigma. Ma cosa significa davvero portare una missione di sole donne nello spazio nel 2025? E perché questo gesto, apparentemente simbolico, è in realtà profondamente politico?
Dallo Sputnik a Beyoncé: lo spazio come palcoscenico delle narrazioni culturali
Lo spazio è sempre stato teatro di narrazioni potenti. Dal primo volo di Yuri Gagarin nel 1961 alla bandiera americana piantata sulla Luna otto anni dopo, ogni impresa spaziale ha incarnato qualcosa che andava oltre la tecnologia: il dominio, la corsa ideologica, la superiorità culturale. In questo contesto, l’assenza sistemica delle donne non è mai stata una semplice dimenticanza, ma una scelta strutturale.
Fino al 1983, quando Sally Ride divenne la prima astronauta statunitense nello spazio, le donne erano considerate inadatte alla pressione fisica e mentale del volo spaziale. Oggi le cose sono cambiate, almeno in apparenza. Eppure, nel 2024 solo l’11% degli esseri umani che hanno viaggiato oltre l’atmosfera terrestre erano donne. È in questo vuoto che si inserisce la missione NS-25 di Blue Origin: una narrazione alternativa, una riscrittura simbolica in cui le donne non sono eccezioni, ma protagoniste.
Katy Perry nello spazio: emblema di un nuovo immaginario scientifico
La presenza di Katy Perry nello spazio e, prima ancora, in questa missione è tutt’altro che accessoria. Non è solo l’artista dietro successi planetari come Roar o E.T, ma una figura che ha costruito la propria carriera sul superamento degli stereotipi di genere. Portarla nello spazio è un’operazione che mescola consapevolmente cultura pop e divulgazione, rendendo il viaggio accessibile e familiare a pubblici che difficilmente si interesserebbero di tecnologia aerospaziale.
È una strategia di comunicazione sofisticata, in cui la visibilità mediatica viene piegata a favore di un messaggio potente: lo spazio non è più un territorio neutro o “maschile”, ma uno spazio di rappresentazione. E se l’esplorazione del cosmo ha da sempre avuto una dimensione simbolica, allora anche questa presenza ha un significato che va ben oltre la tuta spaziale.
Una missione femminile non è solo una questione di genere
Non si tratta di creare un contrappeso estetico a una lunga tradizione maschile. Ogni donna selezionata per la missione NS-25 porta con sé un bagaglio di competenze e identità che arricchisce la narrazione spaziale. Da Ed Dwight, prima persona afroamericana addestrata come astronauta (e ora finalmente a bordo), alla pilota Gopi Thotakura, ogni partecipante rompe una barriera.
L’intersezionalità della missione – per etnia, professione, notorietà – è la vera innovazione. Perché sfidare il maschilismo strutturale del settore aerospaziale significa anche aprire lo spazio a una pluralità di sguardi, esperienze e linguaggi. In questo senso, la missione è anche un esperimento sociale e culturale, un microcosmo di un mondo che forse, solo nello spazio, riesce a immaginarsi diverso.
Il futuro si costruisce anche con l’immaginazione
Nel 1972 l’astronomo Carl Sagan scriveva: “noi siamo il modo dell’universo di conoscersi”. Ma conoscere implica anche riconoscere, e per troppo tempo l’universo ci è stato raccontato da una sola voce. Missioni come questa – imperfette, spettacolari, provocatorie – servono a riscrivere non solo chi va nello spazio, ma cosa lo spazio rappresenta per noi. Non si tratta di spettacolarizzare l’inclusione, ma di ricordare che ogni viaggio oltre l’atmosfera è anche un viaggio dentro le strutture sociali che abbiamo costruito. E se una popstar può diventare ambasciatrice di una nuova visione dello spazio, forse è il segno che il futuro si costruisce anche – e soprattutto – con l’immaginazione.
