Una serie può essere distopica, disturbante, perfino disturbata. Ma quando una distopia si avvicina alla cronaca, allora smette di essere intrattenimento e diventa specchio. The Handmaid’s Tale 6, anche nota come Il racconto dell’ancella, per chi ama i titoli spiegati – è giunta alla sua sesta stagione. E a quanto pare, nonostante le profezie catastrofiste sull’esaurimento narrativo, è più necessaria che mai. La repubblica di Gilead non è poi così lontana da certi luoghi contemporanei, e la fantapolitica si è talmente mescolata alla realtà che una maratona della serie rischia di sembrare un notiziario leggermente sceneggiato. Ma la domanda è: perché guardarla oggi ha un senso più profondo di ieri? Perché, nella crescente marea misogina che si sta diffondendo anche nelle democrazie più lucide, serve ancora una distopia per ricordarci dove non vogliamo arrivare.
La distopia non è più letteraria
Quando Margaret Atwood scrisse il romanzo nel 1985, pensava a un futuro aberrante costruito usando solo elementi già esistenti nella storia umana. Niente alieni, niente magia, solo repressione patriarcale – quella sì, vecchia come il fuoco. Trent’anni dopo, il romanzo è diventato serie e la serie è diventata realtà aumentata. I recenti attacchi ai diritti delle donne – dalla Polonia agli Stati Uniti, passando per l’Italia che smantella silenziosamente consultori e leggi – sono la traduzione materiale di ciò che The Handmaid’s Tale aveva previsto. Non siamo a Gilead, certo. Ma la strada è segnata, e qualche segnaletica inquietante l’abbiamo già superata.
Il corpo femminile come campo di battaglia
In Gilead, il corpo femminile è proprietà dello Stato. Non è un simbolismo, è procedura. Le donne fertili vengono ridotte a incubatrici viventi, private di identità, desiderio e parola. Qualcuno dirà: “è solo finzione”. Davvero? Quando negli USA la Corte Suprema rovescia Roe v. Wade, togliendo il diritto federale all’aborto, non è più questione di trama. Quando si diffondono app per tracciare le donne incinte, e i governi promuovono liste di obiettori di coscienza più estese delle cartine geografiche, siamo già in una zona grigia dove la fiction ha perso l’esclusiva sulla distopia.
Crescente misoginia, vestita da tradizione
Chi si ostina a pensare che le battaglie femministe siano “superate” dovrebbe osservare con attenzione la deriva globalmente regressiva del discorso pubblico. La misoginia oggi si traveste da tutela dei valori, da conservazione dell’identità culturale, da bioetica paternalista. È l’odio travestito da nostalgia. The Handmaid’s Tale ci mostra come la restaurazione patriarcale non abbia bisogno di mostri, solo di burocrazia e consenso passivo. Basta una crisi, e la paura fa il resto. L’attualità ci regala una sfilata quotidiana di nuovi comandanti Waterford in giacca e cravatta.
Perché rivederla (o cominciare ora) ha senso
The Handmaid’s Tale 6 si carica del peso dell’attualità. Non è solo un proseguimento narrativo, ma un richiamo. Guardarla oggi non è “tenersi aggiornati sulla serie”, ma misurare la distanza – sempre più sottile – tra la finzione e ciò che potrebbe accadere. È un invito a restare vigili. Le protagoniste non sono eroine da merchandise: sono specchi. June, Serena, Moira… incarnano ogni possibile risposta al crollo delle libertà. Rivederle agire, sbagliare, ribellarsi o cedere ci aiuta a capire come agiremmo noi. O come già stiamo agendo, senza accorgercene.
Non basta indignarsi, serve memoria
Il pericolo della serialità è l’assuefazione. Dopo sei stagioni, il rischio è che le violenze rappresentate perdano potenza emotiva. Ma la narrazione di The Handmaid’s Tale ha un’arma segreta: la memoria. Ogni flashback, ogni dettaglio del “prima”, ci ricorda che Gilead non nasce dal nulla. Nasce da una lenta erosione di diritti, da una somma di piccole rinunce, da una folla che guarda e non interviene. Ed è questo, forse, il punto più attuale della serie: non mostra il crollo, ma la normalizzazione del crollo. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di ricordare che l’abisso inizia sempre con un passo apparentemente innocuo.

Giornalista, direttore editoriale, si occupa di cibo, di lifestyle, di viaggi da un paio di decenni