Ecco perché il futuro sarà su nastro magnetico
La nostra vita digitale inquina, e neanche poco. Quando ce ne stiamo seduti alla scrivania, davanti al pc, non stiamo certo guidando un’auto mossa da un motore a gasolio. Eppure produciamo un sacco di emissioni. Mandare 20 email al giorno nell’arco di un anno produce tanta anidride carbonica quanta se ne produrrebbe percorrendo in auto 1.000 chilometri. E dire che nel mondo, in un’ora, vengono scambiati 12 miliardi di email, l’equivalente di 4.000 tonnellate di petrolio. Ma anche la semplice ricerca su Google inquina: si calcola tra gli 0,2 e i 7 grammi di anidride carbonica per ogni query inserita nell’apposita barra. Il motore di ricerca per eccellenza rappresenta infatti il 40% dell’impronta di carbonio di Internet. Allargando ulteriormente lo sguardo, si scopre che l’Information Technology nel suo complesso genera il 4% delle emissioni di CO2 a livello globale.
E probabilmente le cose peggioreranno di parecchio nei prossimi anni: un’indagine Capgemini ipotizza che l’inquinamento dell’IT nel 2025 sarà tre volte superiore a quello del 2010. Cosa possiamo fare? Possiamo ridurre le email inviate, comprimere gli allegati, annullare l’iscrizione a newsletter inutili, svuotare regolarmente il cestino della casella elettronica ed evitare di passare da Google quando conosciamo già l’URL che cerchiamo. Ma non solo: possiamo anche smettere di memorizzare i nostri dati online. Sì, perché il cloud inquina parecchio.
Quanto inquinano i data center?
Negli ultimi anni l’abitudine di memorizzare dei dati online è diventata sempre più comune, per divenire anzi la prassi. Per i singoli utenti del web ma anche e soprattutto per le aziende, che con l’avvento dei big data hanno avuto l’esigenza di spazi di storage decisamente capienti, veloci e sicuri. Ma dove vanno a finire nel concreto questi dati memorizzati in remoto? A raccoglierli, custodirli e gestirli sono i data center, strutture altamente inquinanti: basti sapere che un metro quadrato di data center inquina dalle 10 alle 50 volte in più rispetto alla stessa superficie di un qualsiasi ufficio. Non stupisce quindi che, stando a uno studio dell’Agenzia internazionale per l’energia, i data center risucchino da soli circa l’1% della domanda mondiale di energia. Nel caso degli Stati Uniti, si parlerebbe persino del 2% dell’energia utilizzata a livello nazionale.
E da questa parte dell’Oceano? Ad Amsterdam ha luogo il principale hub europeo d’accesso digitale: lì risiede il 30% circa dei data center del continente. Le grandi aziende IT hanno convertito grandi edifici residenziali in server farm, ognuna delle quali consuma l’equivalente elettrico di 15mila abitazioni o di un numero imprecisato di ospedali. E certo, è vero che i giganti del settore si stanno muovendo per passare alle rinnovabili, con grossi investimenti nell’eolico e nel solare, ma è allo stesso tempo vero che la richiesta di spazio per l’archiviazione è destinata a salire in fretta, rendendo almeno in parte vani questi sforzi.
Lo storage offline inquina molto meno
Di fatto, una server farm di dimensioni importanti può inquinare quanto una città di medie dimensioni. Cosa si può fare da questo punto di vista? Di certo la soluzione più efficace – sapendo che trascorrerà parecchio tempo prima che tutti i data center siano alimentati con energie rinnovabili – sarebbe quella di tornare all’archiviazione dei file offline. Parliamo per intenderci dei dischi rigidi locali, degli hard disk removibili, delle pennette USB. A dimostrare il fatto che negli ultimi anni ci siamo allontanati parecchio da questo modo di pensare c’è il fatto che tanti moderni computer non presentano né il necessario per leggere i CD, né un numero sufficiente di porte USB per rendere agevole l’uso di pennette e dischi removibili.
Il futuro è su nastro magnetico
Potrebbe sembrare strano, ma la soluzione migliore sarebbe quella di utilizzare dei nastri magnetici, come annunciato non molto tempo fa dall’Economist. Ai non addetti ai lavori questi elementi potrebbero far pensare ai lontani albori dell’informatica. Pensiamo per esempio al vecchio IBM 726, la prima unità a nastro magnetico del brand, lanciata nel 1952, che memorizzava fino a 2.3 megabyte per oltre 4 quintali di peso. Una cartuccia a nastro moderna può comodamente accogliere fino a 15 terabyte. Certo, i nastri magnetici non consentono un accesso veloce ai dati quanto i dischi o gli hard drive, ma consumano molta, molta meno energia. Nel momento in cui i dati sono registrati, il nastro se ne sta fermo, addormentato, senza richiedere nemmeno un watt. E i nastri sono anche sicuri: basti pensare al fatto che ci sono ancora oggi tante realtà che preferiscono usare i nastri magnetici, così come viene fatto comunemente nel settore bancario, in quello assicurativo, negli archivi nazionali e in diversi enti di ricerca. Non va poi sottolineato che il prezzo dei nastri magnetici è minore rispetto a tante altre soluzioni: rispetto alle SSD (le velocissime memorie allo stato solido), per esempio, possono costare fino a 50 volte in meno.
Ci sono molti motivi insomma per i quali lo storage offline, e in particolare quello su nastro, potrebbe – e dovrebbe – tornare in auge. Nel frattempo, pensiamo a quello che facciamo – e non facciamo – quando siamo online.
Copywriter dal 2014, trentino dal 1987. Quando non viene distratto dalle montagne tentatrici che lo circondano, scrive, spesso e volentieri, di sostenibilità e dei temi a essa collegati. È convinto del resto che sia ormai impossibile (o quasi) parlare in modo approfondito di un qualsiasi argomento senza finire, presto o tardi, a discutere delle cruciali tematiche ambientali.