Riformare il lavoro non le pensioni

da | Mar 20, 2023 | ambiente, politica | 0 commenti

«Ne jamais battre en retraite» («Non indietreggiare», in francese la parola retraite significa sia pensione che ritirata).

«La retraite avant l’arthrite» («La pensione prima dell’artrosi»).

«La retraite d’Elisabeth dépasse les bornes» («La pensione di Elisabeth Borne», la prima ministra, «supera i limiti», che in francese si dice les bornes).

Ecco alcuni esempi di cartelloni spiritosi che si vedono sfilare alle manifestazioni che affollano le strade di tutta la Francia in queste settimane, per protestare contro l’odiata riforma delle pensioni che alzerà l’età pensionabile da 62 a 64 anni.

Senza entrare nel merito della complessità della riforma, mi sono chiesta da italiana – che probabilmente non avrà nessuna pensione – che cosa agiti i francesi così profondamente. L’idea che mi sono fatta è che il lavoro non è più al centro della vita delle persone. Il lavoro, anche quando ti piace e ti soddisfa, non basta a dare un senso all’esistenza. I francesi sono molto conservatori perciò protestano per principio quando vengono proposti dei cambiamenti, ma in questo caso mi pare ci sia anche una visione del futuro, ovvero il superamento del concetto novecentesco di lavoro. È questa doppia articolazione tra conservazione e rinnovamento che mi sembra interessante e che vede alleate tutte le generazioni.

Le contraddizioni del sistema sono ormai talmente flagranti; proprio in questi giorni mentre il governo afferma di dover alzare l’età pensionabile perché non ci sono più soldi nelle casse, Total annuncia dei dividendi stratosferici (e così Shell e tutte le altre industrie petrolifere). La gente scende per strada urlando: non dovremmo farlo tutte e tutti? In quale mondo vogliamo vivere? Quali valori vogliamo difendere? La cura, l’educazione, il tempo per occuparsi degli altri e dei beni comuni, per rigenerare quello che è stato e che continua a essere distrutto in nome del profitto, rientrano in una visione nuova della società nella quale il lavoro, la produzione e la distribuzione della ricchezza vanno completamente ripensati.

Sto leggendo il romanzo di Joseph Ponthus, Alla linea, da poco tradotto in italiano per l’editore Bompiani da Ileana Zagaglia. Ponthus racconta in modo poetico e struggente la sua esperienza come lavoratore interinale in Bretagna, prima in un’industria di trasformazione del pesce poi in un macello. È una storia di alienazione, di ritmi di lavoro che impediscono ogni possibilità di avere una vita normale, di fatica, di freddo, di notti e di albe, di puzza di morte, di carcasse di animali, di catena di montaggio, la «linea» di produzione appunto, che spezza l’essere umano, sia fisicamente che psicologicamente. Un lavoro invisibile al quale non pensiamo mai quando mangiamo i gamberetti, il salame o la bistecca. Ponthus sopravvive grazie alla scrittura, alle sue letture, all’amore per la poesia e per sua moglie, ma gli altri? Le altre? Non dovrebbe essere il corpo a decidere quando ritirarsi? Queste proteste dei francesi ci dicono che è ora di cambiare visione della società.

crediti fotografici: https://unsplash.com/it/foto/It3dmqBbKRQ

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