Il cibo: una questione privata? Perché quello che metti nel tuo piatto è una scelta anche politica

E se quel che mangi non fosse una scelta privata? Il caso dell’alimentazione vegan mostra come la dieta sia una questione sociale e politica.

La studiosa americana Carol J. Adams racconta di essere sempre stata una ragazza curiosa. Cosa che la rendeva poco prona ad accettare, senza farsi troppe domande, il cosiddetto status quo. Anche per questo la vediamo battersi, sin da studentessa (la sua vita universitaria si svolgeva nelle antiche aule dell’Università di Rochester), per numerose cause – dalle proteste contro la guerra in Vietnam all’adozione di corsi sulla questione di genere da parte del proprio ateneo. Anche per questo la vediamo, quasi improvvisamente, chiedersi: come e perché mangiamo la carne?

Sì: perché dietro a un gesto apparentemente banale e naturale, la giovane intravede una portata simbolica, e politica, più vasta.

Anzitutto, il tracciamento di un confine. Prima del boom economico e industriale, in cui la carne rossa diventa alimento alla portata di tutti, il suo taglio è considerato ancora pregiato – e viene così riservato, entro le mura domestiche, all’uomo, sia esso il pater familias o il giovane rampollo che, si sa, deve crescere e mettere su muscoli.

E così sia. Carol J. Adams allora si volge a studi antropologici, ripercorre la storia dell’uomo e della carne sino all’antica Grecia e oltre: per notarne anzitutto il forte portato sacrificale. Spesso il sacrificio rituale, nota ancora la studiosa, coinvolgeva un animale a sangue caldo come un bue o un montone – le dimensioni dell’animale corrispondevano, per così dire, alla grandezza e alla sontuosità del sacrificio. Una volta immolato, l’animale veniva a volte consumato, e il valore dei tagli ripartiva, ancora una volta, una gerarchia politica e sociale tutta umana. Quelli più pregiati andavano ai sacerdoti, agli uomini più influenti, mentre gli scarti al più semplice volgo.

Ci potremmo chiedere – e, ancora una volta, Carol J. Adams si chiede e ci chiede – se la situazione oggi sia poi tanto diversa. Se la carne non definisca ancora una piramide sociale, prima che alimentare, in cui si fa simbolo di potere (se non più spirituale o nobiliare, economico) e prerogativa particolare di uno dei due generi sull’altro. La carne è tutt’ora immaginario dell’uomo virile, e chi non la mangia è spesso considerato effemminato, o poco mascolino (la lingua anglofona ha coniato uno slur o insulto per i maschi che si rifiutano di mangiare carne: soyboy).

Il peso specifico dell’alimentazione

Al di là del potere simbolico della carne, tanti altri studi dimostrano altrimenti la sua valenza politica e sociale. Ogni cibo ha, per così dire, il suo peso specifico: non tutti gli alimenti richiedono un eguale investimento in termini di risorse (tempo, acqua, suolo, forza lavoro umana e/o animale) per essere prodotti. E la carne, si sa, non si colloca tanto bene in questa scala: il suo impatto ambientale è ormai testimoniato da numerose ricerche.

Allarmante è, per esempio, il disboscamento e il riadattamento a monocoltura richiesto per l’alimentazione degli animali da macello stessi. E la classica domanda e la soia? che si rivolge a chi segue una dieta plant based in realtà non coglie il segno… L’80% della soia coltivata è destinata a diventare mangime, prima che al consumo umano!

La scelta del cibo, insomma, è un atto politico: non riguarda semplicemente il gusto o la salute del singolo. Ma – l’ecologia, insegna lo studioso Timothy Morton, è esercizio di un pensiero all’altezza della complessità – riguarda un po’ tutto il Pianeta. Alla nostra contemporanea (e vertiginosa) altezza, le catene di approvvigionamento, di produzione e così via coinvolgono tutto il mondo nel suo complesso.

Il dilemma dell’onnivoro

Ecco perché, dice anche Michael Pollan nell’omonimo bestseller, essere onnivori non è semplicemente questione privata, ma un dilemma. Sì, perché riguarda il consumo del suolo e dell’acqua, che sono ormai risorse rare, di cui una grande fetta della popolazione è stata espropriata. Perché riguarda la qualità del suolo e dell’acqua, ancora. Perché riguarda la ripartizione di investimenti e di risorse. E perché riguarda gli animali: già Pitagora e Plutarco denunciavano la necessità del vegetarianismo, a favore delle altre creature che, per definizione, sono anche loro senzienti.

Va bene, sono diverse da noi. Non sanno forse parlare (il nostro linguaggio), né fare di conto, né costruire strumenti troppo elaborati (ma è poi vero, o è piuttosto che le osserviamo da una prospettiva troppo antropocentrica?). L’importante in questo caso è, però, che possano soffrire. Lo diceva il padre della filosofia morale utilitaristica Jeremy Bentham, e lo ripete il filosofo Derrida, che della politica (una politica estesa anche agli animali non-umani) si è sempre occupato con grande cura. Per questo bisogna mangiare bene, diceva ancora Derrida.

Scegliere una dieta vegana è un atto politico e ideologico, perché dimostra che nel nostro conto, nella nostra considerazione, sono incluse persone che vivono lontano da noi, gli animali, la Terra stessa. L’alimentazione, i suoi ritmi e i suoi oggetti, sono sempre stati stabiliti dalla cultura vigente: ogni cultura ha un modello che contempla categorie di cibo desiderabili e alimenti, invece, come da rifiutare. Anche per questo, come ogni questione politica, anche l’alimentazione può essere decostruita: non è naturale né scontata, ma la possiamo reinventare da capo. E la dieta vegana è, forse, un buon punto di partenza.

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