Quando ebbe mangiato le sue fette e bevuto il suo latte caldo, il bambino si alzò per andare a vestirsi, sarebbe poi uscito nel bosco per cercare le tracce delle lepri sulla neve, aveva davanti a sé una lunga giornata senza impegni, senza pulmino e senza compagni che lo prendevano in giro, senza maestre che piangevano e soprattutto senza la mensa con quell’odore di cavoli e patate che gli dava il voltastomaco. Mentre si infilava gli stivali pensò con terrore alla frase detta dalla madre, “speriamo che lo zio venga a prenderci”, ma poi non ci fece più caso, non vedeva l’ora di essere fuori, in quel biancore accecante, calzò il berretto di pelliccia, la mamma si avvicinò per legargli le stringhe dei guanti.
«Non ti allontanare» disse, mentre lui già muoveva i primi passi nella neve morbida che gli arrivava alle ginocchia. Si sentì come un astronauta alla scoperta di forme di vita sulla luna, alle sue spalle la casa navicella era quieta, dentro c’era la sua mamma che sfaccendava e che si sarebbe occupata di lui al ritorno dalla missione. Dov’erano finite tutte le creature del bosco? Le cicogne le aveva viste volare via alla fine dell’estate, i loro nidi vuoti gli facevano una grande tristezza, ma tutti gli altri?
La donna tremò per l’aria gelida che era entrata dalla porta. Con gesti lenti cominciò a riassettare la casa, non prima di aver sollevato nuovamente la cornetta, niente. Sistemò la cucina, il bagno, mise i panni nella lavatrice, infilò qualche ciocco nel camino e si fermò a guardare la danza delle fiamme e ascoltare il crepitio della legna secca. Molte cose erano cambiate negli anni, bastava aprire il frigo o gli scaffali della cucina per accorgersene, bastava accendere la televisione, eppure quella mattina la donna si era svegliata con le sensazioni di un tempo che molti consideravano passato per sempre, ma che riaffiorava talvolta in lei ed era associato nella sua mente a uno stato di disperazione, di assenza di prospettiva, qualcosa che le era rimasto dentro come una malattia i cui sintomi potevano restare sopiti per mesi, ma tornare a manifestarsi in qualsiasi momento. I sintomi parlavano russo. Le capitava ancora di sognare in russo e di maledire sé stessa per il fatto di non riuscire a dimenticarlo. Invidiava suo figlio che non aveva mai dovuto impararlo, che non sapeva nemmeno cosa volesse dire imparare una lingua a forza, una lingua della quale il suono stesso le faceva venire i brividi. Quando erano in due era più facile lottare, resistere, difendersi. Da soli, il peso della memoria si faceva insostenibile, come quei metri di neve che cadevano sugli alberi spezzandone i rami. Era stata anche lei vittima dell’esaltazione, dell’euforia che aveva rapito il suo popolo al momento della liberazione, aveva sperato in una vita nuova che potesse prescindere dal passato, era nato un figlio, simbolo stesso del rinnovamento, ma presto si era accorta che la sua presenza non era sufficiente a cancellare i segni delle ferite precedenti, la penuria alimentare, gli interrogatori, la scomparsa improvvisa di parenti, amici, colleghi, la tortura e in seguito la morte in uno scantinato imbottito di gommapiuma per non fare rumore, o alla periferia della città, fucilazioni di massa all’alba di una giornata livida e fredda. Alla morte del marito, si era rifiutata di tornare a vivere con la propria famiglia, convinta che ce l’avrebbe fatta da sola, convinta che tutte quelle lotte l’avessero resa forte, invincibile, avevano sconfitto un impero, il resto sarebbe stato più semplice.
Lanciò un’occhiata alla finestra, il piccolo si trascinava a fatica nella neve, di lì a poco sarebbe tornato a casa zuppo e mezzo congelato; a guardarlo così, in mezzo a quella distesa di bianco, sembrava un animaletto, una di quelle creature del bosco che vivono tra i rami dondolando la testa. La donna ebbe un sussulto di tenerezza, sembrava così piccolo e fragile a fronte dell’immensità del bosco, avrebbe voluto raccontargli tutto e non raccontargli niente, raccontargli del padre, uscito di casa un mattino come tanti, e mai più ritornato. Si sedette al tavolo per impacchettare i regali che aveva comprato per il piccolo. Li aveva nascosti nell’armadio per evitare che li trovasse, curioso com’era: un’auto telecomandata e un nuovo paio di stivali perché quelli che aveva gli andavano stretti. Un tempo per l’inverno esistevano solo gli stivali di gomma, verde militare o neri, e non bastavano tre paia di calzettoni per impedire che si congelassero i piedi. Per tutto l’inverno si soffriva dei geloni, rossi e duri come ciliege che quasi impedivano di camminare. Gli stivaletti che aveva comprato erano di cuoio e di una stoffa impermeabile arancione, tutti imbottiti di una lana morbida e calda, con una suola di plastica dura, la donna li annusò, odoravano di nuovo, di moderno. “Con questi si può camminare fino a Vilnius”, pensò la donna. Li rimise nella scatola e la impacchettò con una carta argentata tappezzata di stelle iridescenti che scintillavano, aggiunse un fiocco blu e per un istante immaginò la gioia del piccolo al momento di aprirla. Lo stesso fece con l’automobile, poi tornò a nascondere i due pacchetti nell’armadio. “Speriamo che qualcuno venga a prenderci” pensò la donna.
Nei giorni passati aveva cucinato dei dolci, il dolce d’inverno fatto con frutta secca, noci e mandorle, una ricetta tramandata da generazioni. Per anni la si era dovuta modificare perché non si trovava la frutta secca, non si trovava niente, ci si doveva accontentare di qualche noce e delle castagne, nulla di più. Ora tutto sembrava accessibile, gli ipermercati erano riforniti all’inverosimile, ma non tutti potevano permettersi di comprare. Improvvisamente tutto era diventato troppo. La donna si commuoveva qualche volta di fronte a una vecchia contadina russa, con il fazzoletto viola in testa, che vendeva al mercato un mazzo di fiori e due bicchieri di lamponi. Non riusciva a detestarla, la vecchia non aveva più colpe di loro, sradicata, deportata, senza nemmeno più la speranza di tornare a casa. La donna guardò nuovamente fuori dalla finestra. La neve non cadeva quasi più, il vento spingeva nell’aria qualche fiocco che vorticava a mezz’aria prima di andare a poggiarsi sulla coltre immacolata. Qualche volta fissava il bosco con lo sguardo, con la speranza di vederlo tornare. Il suo cadavere non era stato ritrovato. Se almeno avesse potuto vederlo da morto avrebbe smesso di aspettarlo. Un senso di spossatezza si impadronì di lei, sentiva gli arti inferiori formicolare e la testa era come avvolta nell’ovatta.
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Scrittrice, vive tra Parigi e Roma.
Dopo aver seguito i lavori della COP21 nel 2015 a Parigi, ha deciso di coinvolgersi nel movimento ecologista e ha scritto il romanzo “Dopo la pioggia” pubblicato dalla casa editrice E/O che tratta di questi temi. Cerca di educare i suoi figli alla sobrietà felice e la parità di genere, ha piantato un orto in Piemonte con i principi della permacultura e aspetta con impazienza il ripristino del treno notturno Parigi Roma.