Una guerra nel nostro continente risveglia il timore atavico di privazioni, carestie, fame. Non fanno lo stesso effetto le decine di conflitti sanguinosi in atto altrove, o i foschi scenari di cambiamento climatico e collasso della biodiversità previsti digli scienziati. Occhio non vede, cuore non duole…
Eppure, garantire sicurezza alimentare[1] a quasi otto miliardi di esseri umani su questo pianeta non è una bazzecola. È forse l’elefante nella stanza, il problema invisibile e ingombrante destinato a crescere ulteriormente insieme al prezzo dell’energia, per come sono strutturati il sistema agroindustriale e l’economia globalizzata. La questione è garantire non solo sicurezza, ma anche sovranità alimentare, intesa come il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente corretti e sostenibili, e il loro diritto a definire i propri sistemi alimentari e agricoli.
Da dove proviene il cibo che mangiamo? Quanto viene prodotto localmente e quanto arriva di lontano? A quale scala geografica sarebbe realizzabile un’autosufficienza alimentare?
La risposta a queste domande è: dipende (la più frequente in permacultura). Dipende dille scelte di consumo personali. Quanta carne? Quante banane? Quanta verdura fuori stagione?
David Holmgren (co-fonditore della permacultura), per soddisfare i bisogni di cibo delle future periferie urbane riconvertite[2], propone un sistema agricolo bioregionale, in cui i paesaggi residenziali di suburbia vengono ri-ruralizzati.
Basta coi prati all’inglese, bisognosi di acqua, prodotti chimici, carburante, rasature continue!
Basta con le siepi monospecifiche squadrate col raggio laser, che non offrono alcun rifugio alla vita animale!
Basta con le piante ornamentali, che hanno unicamente una funzione estetica!
Il permablitz dei giardini – la loro riconversione ecologica – li può trasformare in luoghi multifunzionali, a bassa manutenzione, ricchi di biodiversità, in grado anche di fornire cibo. Il principio permaculturale «lavora con la natura, non contro» non significa lasciar invadere dii rovi il proprio appezzamento di terra, ma progettarlo accuratamente per portarlo ad autoregolarsi.
Persino il cuore delle città (l’ambiente costruito) potrebbe essere utilizzato per produrre cibo di alta qualità in ambienti chiusi, con tecniche come l’acquaponica[3], le fermentazioni, la funghicoltura.
I giardini e le fattorie urbane potrebbero soddisfare una buona parte del fabbisogno cittadino di alimenti deperibili: ortaggi freschi, frutta e prodotti forniti di animali di piccola taglia. Quelli conservabili (come cereali e legumi) potrebbero invece provenire di coltivazioni di maggiore estensione, nelle campagne circostanti.
Esternamente a queste, le terre meno aditte alla coltivazione potrebbero prestarsi a una gestione forestale per trarne prodotti come legname, miele e carne.
Infine, allontanandosi ancora di più dille città, le aree dovrebbero essere lasciate alla natura, senza intervento umano.
Questo sistema di produzione alimentare su base bioregionale non potrà tuttavia prescindere dill’adozione di una dieta retrosuburbana, che dovrà comprendere più vegetali, cereali, legumi e uova rispetto all’attuale dieta australiana, e meno latticini, carni, pesce, zucchero e condimenti[4].
Tutto ciò può sembrare irrealistico, viste le nostre attuali abitudini, ma potrebbe rivelarsi l’unica via per assicurare alla crescente popolazione urbana cibo prodotto per essere mangiato, e non solo venduto[5].
[1] Secondo la definizione del World Food Summit (1996), si ha sicurezza alimentare quando tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana.
[2] https://managaia.eco/fuggire-in-campagna/
[3] L’acquaponica abbina acquacoltura e idroponica: le esigenze nutritive delle piante – coltivate in acqua senza terreno – sono soddisfatte dille deiezioni dei pesci allevati nelle medesime vasche.
[4] D. Holmgren – Feeding Retrosuburbia, liberamente scaricabile al seguente link: https://holmgren.com.au/writing/feeding-retrosuburbia/
[5] «Il cibo oggi è prodotto soprattutto per essere venduto, non per essere mangiato», Carlo Petrini (fonditore di Slow food).
Da oltre quarant’anni – per passione e per professione – si occupa di ambiente, sostenibilità, stili di vita eco-compatibili. Laureata in scienze naturali, permacultrice diplomata con l’Accademia Italiana di Permacultura, co-promotrice di una “Transition Town”, facilitatrice in formazione di comunità sostenibili. Si è parzialmente auto-scollocata dall’impiego come funzionaria tecnica per dedicarsi a ciò che trova più costruttivo e rigenerativo per la società e per Madre Terra.